Valter Arianti e la sua trattoria di Pigazzano «Non mollo nonostante le difficoltà»

Nuova puntata della rubrica l’Azienda del mese nata dalla collaborazione editoriale fra QuotidianoPiacenzaOnline e Confcommercio Piacenza. Come sempre il nostro giornale cerca di farvi conoscere più da vicino realtà storiche o di particolare interesse fra quelle iscritte all’associazione di strada Bobbiese.

Valter Arianti oste e negoziante a Pigazzano, in provincia di Piacenza è – come tanti suoi colleghi sparsi per l’Italia – il simbolo di una categoria che non vuole arrendersi allo spopolamento delle nostre bellissime colline, alla “modernità” che avanza travolgendo tradizioni ed abitudini. La trattoria di cui è proprietario e gestore venne fondata ufficialmente dal nonno Cleante nel 1933, dopo un periodo di “rodaggio” durato tre anni «Allora qui c’erano circa 500 abitanti. C’erano tante famiglie numerose di agricoltori, con tanti figli. Mio nonno era postino, mestiere che ha svolto per quarant’anni. Insieme con la moglie Maria decise di avviare quest’attività. La nonna preparava da magiare alla sera e poi il nonno, finito il giro di consegne delle lettere, indossava il grembiule da oste e serviva i clienti. Nel 1965 presero le redini mio padre Italo e mia madre Iva Costa, portando avanti sia il negozio di alimentari sia la trattoria. Dopo vent’anni, nel 1985, subentrò nella gestione Emilia Conti che restò fino al 1991. L’anno successivo entrai io con l’aiuto di mia madre che mi affiancò fino al 2011».
Anche quando è mancata sua mamma lei ha deciso di proseguire da solo?
«Si, trovare un cuoco è quasi impossibile, così ho deciso di fare tutto da solo. Ho ridotto molto il menù, l’ho semplificato. Ora propongo solo due primi della tradizione, tortelli e pisarei, oltre a salumi e formaggi. In parallelo porto avanti anche il negozio. La trattoria, pur essendo sempre aperta, lavora soprattutto nei week-end con le famiglie, le coppie e qualche compagnia».
Come è cambiato Pigazzano in questi anni?
«A parte la parentesi della nascita, avvenuta a Piacenza, qui ci vivo da 59 anni. Non ho mai visto i tanti abitanti di cui mi parlavano i nonni, però ho vissuto il boom turistico degli anni 70, quando il paese si riempiva di villeggianti. Oggi non è più così, sono cambiate le abitudini, i luoghi di villeggiatura, il modo di fare le vacanze. I residenti rimasti saranno una cinquantina, ma non si fa più vita di paese, l’osteria non è più luogo di aggregazione, di socializzazione, ciascuno se ne sta a casa sua, preferisce social alla vita reale. Anche dal punto di vista economico è cambiato tutto ed è rimasto un solo agricoltore, un giovane che ha una stalla».
Con uno scenario così mutato portare aventi un’attività come la sua non deve essere semplice.
«Non è facile per niente. Per fortuna la struttura è mia e non devo pagare un affitto. Ma far quadrare i conti resta complicato. E’ cambiato il mondo però non voglio rassegnarmi».
Non immagina per sé un futuro diverso?
«Mi piacerebbe andare in pensione, prima o poi. Non sono sposato e non ho figli. Sono molto legato a questo posto, a questo lavoro. Porto avanti le tradizioni: io i salumi li stagiono ancora come faceva mio nonno, nella cantina con il pavimento di terra».
Salumi piacentini immaginiamo?
«Certo, coppa, salame e pancetta. L’unico intruso è la culaccia che arriva dai cugini parmigiani».
Ha subito contraccolpi in seguito alla stretta imposta dal nuovo codice della strada sul tema dell’alcool.
«Forse le sanzioni ora in vigore sono un po’ troppo elevate, però resto della mia idea, cioè che chi guida non debba bere. E’ così in qualunque altro paese europeo».
Torniamo alle difficoltà di lavorare fuori dai centri urbani, in collina, in montagna. A suo giudizio è possibile fare qualcosa per salvare attività come la sua, per impedire che scompaiano presidi fondamentali della nostra cultura eno-gastronomica.
«Si è perso troppo tempo! La politica se ne è sempre fregata, a tutti i livelli, dai governi ai comuni. Spero di sbagliarmi ma temo che sia molto difficile tornare indietro».




Focacce, canestrelli e tanta tenacia. La ricetta del successo della famiglia Traverso che fa impresa ad Ottone

Nuova puntata della rubrica l’Azienda del mese nata dalla collaborazione editoriale fra QuotidianoPiacenzaOnline e Confcommercio Piacenza. Come sempre il nostro giornale cerca di farvi conoscere più da vicino realtà storiche o di particolare interesse fra quelle iscritte all’associazione di strada Bobbiese.

Le radici di Alessandro Traverso affondano in quella Genova a ridosso del centro storico, nella zona di Marassi, nota per la presenza dello stadio, e di San Fruttuoso. Fin da giovanissimo però è stato forte il legame che Traverso ha avuto con quella parte di Val Trebbia ligure, al confine con il piacentino. Nonni e genitori provenivano da Casanova di Rovegno e Torriglia, zone che l’imprenditore si trovò a frequentare da bambino. Una volta diventato adolescente, intorno ai 15 anni, d’estate saliva in montagna e si rimboccava le maniche per lavorare come garzone in una panetteria. L’arte bianca ha del resto sempre fatto parte del suo DNA, trasmessagli in buona parta dalla nonna insieme alle ricette di biscotti e frolle.

«A Torriglia si facevano i canestrelletti, le paste frolle che sono una tradizione di tutta la Liguria, mentre nel piacentino lo sono il buslan e il buslânein. Allora si cucinava con quello che c’era, che veniva autoprodotto, dal latte alle uova. Non esistevano ancora le merendine del Mulino Bianco. La nonna mi ha insegnato tanto e probabilmente mi ha “contagiato” con la passione per la Val Trebbia».

Tanto che ha deciso di trasferirsi ad Ottone giovanissimo

«Ottone mi piaceva come posto. Era un paese vivo, con tanto turismo. A 22 anni ho deciso di aprire un supermercato in quello che era stato il garage delle corriere e che era ormai dismesso. Era il 18 giungo del 1990. Ottone stava ancora vivendo un momento molto positivo. C’era turismo praticamente tutto l’anno, non solo d’estate. A parte gennaio, febbraio e marzo, che erano un po’ più tranquilli, si lavorava sempre. C’erano tante fiere che a loro volta creavano movimento e portavano persone. C’erano negozi. Pian piano ho conquistato la fiducia di abitanti e villeggianti. Allora l’insegna era quella di Bon Merck. Negli anni l’attività è cresciuta ed ho aggiunto il reparto macelleria, un laboratorio di panetteria e pasticceria, una pizzeria ed una gelateria». 

Da allora ad oggi, cosa è cambiato?

«Purtroppo il turismo nei nostri appennini è andato progressivamente calando ed ormai è concentrato solo nei mesi estivi centrali. In più tutta la montagna ha vissuto una forte spopolamento. Quindi abbiamo dovuto pensare a come reinventarci».

Su cosa avete puntato?

«Abbiamo creato una linea di prodotti da forno confezionati, legata proprio alle tradizioni del passato. Abbiamo incominciato a produrre artigianalmente biscotti e a venderli ai bar delle zone limitrofe. E’ nato il marchio Antico Mulino d’Ottone, con l’idea di valorizzare quel mulino antico, originariamente dei Doria, che aveva funzionato fino agli anni ’60 e che era uno dei simboli del paese. Aveva due ruote e quella più bassa veniva utilizzata per macinare la farina delle castagne locali. Per riassumere, ci siamo reinventati».

Una scommessa che ha funzionato?

«Un tempo l’attività trainante era il supermercato. Oggi l’attività di punta è proprio questa dei prodotti da forno; richiede tanto lavoro e tanta fatica ma ci dà anche soddisfazione. Nel complesso in azienda lavoriamo in otto. Ci sono io e c’è mia moglie Patrizia che mi affianca e mi sostiene fin dal 1990. Poi ci sono i miei figli Davide (27 anni) e Daniel (23 anni), c’è mia nuora Sara, ora in maternità, c’è un’apprendista di Ottone e le nostre collaboratrici tutte provenienti da paesi limitrofi».

Oltre ai canestrelli, di cui ci ha detto, quali sono i vostri prodotti di punta?

«Innanzitutto mi preme dire che usiamo ingredienti che selezioniamo con cura e che provengono, il più possibile, dal territorio locale. Oltre ai canestrelli abbiamo i baciotti (baci di dama), i cuoriciotti con le gocce di cioccolato, le colombe artigianali, il pandolce con pinoli, uvetta ed arancio candito, come vuole la tradizione e per Natale non possono mancare il nostro PanOttone ed il torrone che facciamo a mano con mandorle, nocciole, pistacchi che tostiamo personalmente e aggiungiamo ancora caldi all’impasto e con il miele millefiori del territorio».

Avete anche una linea di prodotti salati?

«Abbiamo inserito i rametti, che sono dei grissini realizzati principalmente con farina di Tritordeum e che sono rigorosamente tagliati a mano. Un ottimo snack per l’aperitivo magari abbinati ad un bicchiere di Ortrugo e a un tagliere di salame coppa e pancetta piacentina. Poi ci sono le nostre schiacciatine che si ispirano ad un’antica ricetta del Tigullio ligure e che noi abbiamo portato in Alta Val Trebbia. Potremmo raccontarle come una  rivisitazione della galletta, un cracker secco che sta avendo molto successo. In più produciamo pane e focaccia fresca, anche questa realizzata secondo ricette liguri».

Prodotti che vendete dove, oltre che nel vostro supermercato?

«Torniamo a quando dicevo prima.  Una volta in montagna la gente stava bene. Poi c’è stato lo spopolamento. Tutto è distante. Fare impresa qui non è facile soprattutto se uno ci tiene a lavorare nella piena legalità, con i dipendenti in regola, rispettando le norme. Quindi se la gente non viene in montagna, noi portiamo i nostri prodotti in città. Ogni giorno facciamo circa 300 chilometri partendo da Ottone per rifornire i supermercati Coop e Conad di Piacenza,  Bobbio, Podenzano, San Giorgio, Ponte dell’Olio Borgonovo, Gragnano. E’ complesso riuscirci anche per i tanti cantieri che ci sono, con relativi semafori e code. Questo implica che dobbiamo panificare molto presto per poter consegnare al mattino. Nel pomeriggio facciamo gli impasti con il lievito madre e poi la lavorazione prosegue durante la sera e a mezzanotte cuociamo. Al mattino prestissimo partiamo per le consegne».

I suoi figli di cosa si occupano?

«Tutti sappiamo fare un po’ tutto, anche perché l’azienda sta crescendo e dobbiamo supportare questa fase. Daniel è specializzato nella pasticceria mentre Davide segue la panificazione ed in estate si occupa del bar gelateria».

Quindi il bar gelateria e la pizzeria sono aperti solo nel periodo estivo?

«Si. Abbiamo anche un giardino che è davvero un ambiente ideale per un aperitivo. D’inverno il paese, almeno durante la settimana, è quasi deserto. Restiamo aperti tutto l’anno con il supermercato che oggi è affiliato CRAI. Abbiamo il reparto macelleria, ortofrutta, salumi e la cantina dei vini. Sono molto orgoglioso del lavoro fatto in questi 34 anni. Lo definirei una chicca. Ho fatto investimenti notevoli: abbiamo il gruppo elettrogeno e quello di continuità; ogni reparto ha le sue celle frigorifere dedicate per lo stoccaggio delle merci; c’è un sistema di videosorveglianza capillare. A fianco abbiamo il laboratorio e le altre attività per un totale di circa 500 metri quadri. Avrei necessità di espandermi ma non è facile riuscire a trovare ed acquistare il giusto spazio».

Come riesce a gestire i picchi di lavoro d’estate?

«E’ molto complicato. Ci rimbocchiamo le maniche anche perché non trovo tutto il personale che mi servirebbe. Sono pochi i ragazzi disposti a lavorare, soprattutto il sabato e la domenica che però, come potete immaginare, sono il momento clou. Non voglio generalizzare ma ho l’impressione che manchi quella voglia di lavorare, quel senso di sacrificio che avevamo noi quando eravamo ragazzi, quando, adolescente, salivo in queste valli da Genova per guadagnare qualche soldino. Mi sbaglierò ma imparare un po’ di sacrificio dovrebbe essere fondamentale nel percorso di crescita di un giovane adulto». 

Davanti alle tante difficoltà che ci ha raccontato non le è mai venuta voglia di mollare la montagna e di spostare la sua attività a Piacenza?

«Vivere in montagna è un privilegio. Certo, fare imprese in un appennino senza strade né servizi non è facile. Però vivere in un contesto come questo è – per me – impagabile. Me lo ripeto ogni volta che scendo in pianura per le consegne e appena passato Rivergaro incappo nella nebbia …. Il compromesso che ho trovato è stato quello di portare il frutto dalla mia impresa in città. Il riscontro è stato più che positivo perché sono tante le persone che sono alla ricerca di cibi e sapori del passato e di qualità. Forse non si può tornare indietro e ripopolare la montagna ma non si può nemmeno perdere la nostra cultura enogastronomica. In Italia ogni paese ha le sue tradizioni, i sui dialetti, le sue ricette. Io sono una piccola goccia che scende dall’Appennino e che contribuisce a mantenere proprio parte di queste tradizioni».




Vasco Elmadhi era destinato alla carriera militare ed invece è diventato il numero uno dei sarti piacentini

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Il destino di Vasip Elmadhi sembrava già scritto e da giovane studente al secondo anno dell’accademia militare, aveva davanti a sé un futuro come ufficiale dell’esercito albanese. La caduta del regime di Enver Hoxha nel 1991 però cambiò totalmente le carte in tavola ed il 24enne, insieme a tanti connazionali, decise di avventurarsi verso l’ignoto, nella speranza di trovare migliori opportunità rispetto alla madrepatria. Salì su una delle tante navi di profughi, sbarcò a Brindisi e dopo tre mesi in un campo fu indirizzato verso l’Emilia-Romagna e nello specifico a Piacenza. Non parlava l’italiano, non conosceva la nostra cultura né il nostro modo di vivere. Gli inizi furono difficili ma l’accoglienza funzionò e dopo pochi mesi dalla partenza iniziò a lavorare alla Paver. Un’attività fisicamente impegnativa per Vasip che non era (e non è) un colosso. Gli servì però per ambientarsi ed avere un po’ di indipendenza economica. Intanto si guardava attorno con l’idea di mettere in gioco un’arte che aveva appreso dalla madre e che era per lui sempre stata una passione, la sartoria; da studente spesso confezionava pantaloni per gli amici.  Presentò svariate domande ed alla fine fu assunto dalla ditta Dodici di Ponte dell’Olio, specializzata nel confezionamento di abiti e con un importante portafoglio clienti.

«Rimasi con loro quattro anni. Divenni un vero e proprio jolly. Lavoravo nel reparto cucitura ma anche nel taglio dei modelli e allo stiro. Nel frattempo però maturavo l’idea di mettermi in proprio. Quando mi capitava di andare a fare shopping di abbigliamento con mia moglie mi informavo su come gestissero i negozi le modifiche, come facessero ad accorciare un pantalone, le maniche di una camicia. Capii che c’era spazio per aprire un’attività che si occupasse proprio di fare questi piccoli lavori di riparazione sartoriale. Ne parlai anche con un fornitore di macchinari dell’azienda dove lavoravo e lui mi confermò che l’idea a cui puntavo aveva un senso. Anzi mi garantì che mi avrebbe appoggiato fornendomi le prime attrezzature. Mi misi alla ricerca di un negozio. Non fu semplice anche perché quando sentivano che ero straniero molti proprietari si tiravano indietro. Per qualche piacentino diffidente ce ne sono però stati tanti altri generosi. Fra questi la mia vicina di casa che mi fece da garante. Nel 1999 iniziò l’avventura in un piccolo spazio proprio di fronte all’Albergo Roma. Altri piacentini – a cui dico davvero grazie di cuore – mi diedero fiducia e divennero miei clienti. Allora non c’erano i social ma solamente il passaparola che funzionò molto bene».

Sua moglie Rosy la affiancò subito in questa avventura?

«Assolutamente sì. Ha sempre appoggiato le mie idee, anche quando sbagliavo. Venticinque anni fa non avevo un tesoretto, soldi da parte, mi potevo solo giocare il mio TFR. Per dare alla mia famiglia qualche sicurezza in più facevo il doppio lavoro: di giorno in sartoria e alla sera cameriere in una pizzeria. Nostra figlia aveva un anno. Rosy intanto nel nuovo negozio faceva la commessa, si occupava delle consegne, mi dava una mano, mi sosteneva».

Le cose, per fortuna, sono andate bene.

«I clienti ed il lavoro sono cresciuti. Abbiamo dovuto assumere anche i primi dipendenti e abbiamo preso un locale più grande, in via Cavour,  adatto per noi che ci lavoravamo e per le attrezzature necessarie. Abbiamo incominciato ad affiancare all’attività di sartoria quella di vendita d’abbigliamento di alta qualità, sia per uomo sia per donna. Era una passione che avevamo sempre avuto e che abbiamo concretizzato.  Non è stato facile ma siamo riusciti ad avere marchi come Corneliani, Karl Lagerfeld, Max Mara che ci hanno dato fiducia. Ancora oggi proponiamo capi di uso quotidiano, da ufficio, da cerimonia ed anche per il tempo libero. Più che ai marchi in sé abbiamo guardato al livello di qualità che doveva essere in linea con lo stile ed il livello della nostra attività sartoriale. C’è una cosa di cui sono orgoglioso: un cliente entra da noi per sistemare un abito confezionato in fabbrica … e alla fine esce con un abito sartoriale, tagliato sul suo fisico».

Ormai ha cinquantasette anni e trentatré li ha vissuti all’ombra del Gotico. Tutti la chiamano Vasco ed il suo accento è più piacentino che schipetaro. La sua attività è cambiata tanto rispetto agli inizi.

«Decisamente. Siamo in cinque a lavorare: io, mia moglie più altre tre persone in sartoria.  Abbiamo questo negozio su due piani in piazza Cavalli con l’esposizione a piano terra e la sartoria al primo piano. Però non è tutto migliorato. Per certi aspetti era più facile prima, anni fa. Oggi avere un’attività commerciale è complicato. Dopo il Covid alcune spese fisse sono schizzate alle stelle. Gli affitti sono molto alti, il costo del lavoro anche, eppure gli stipendi degli italiani non sono andati di pari passo, anzi. La gente è più attenta nello spendere, cerca ancora la qualità ma vorrebbe contenere l’esborso. Da ultimo da quando hanno introdotto l’APU, la zona pedonale con le telecamere qui in piazza, abbiamo perso alcuni clienti. Erano abituati ad attendere le 19 con l’apertura della ZTL e venivano in macchina per caricare i vestiti. Adesso non sanno dove lasciare la macchina, non ci sono parcheggi vicini. Per fortuna abbiamo un giro consolidato, fatto di persone che abitano o lavorano in centro. Però con queste scelte anziché aiutarci …. Ci salva il fatto che lavoriamo come pochi sanno fare. Noi la manica di una giacca la accorciamo smontandola e sistemandola dalla spalla. Ci vogliono molto più tempo e capacità tecnica ma è l’unico modo per fare un buon lavoro e non far vedere la modifica. Inoltre siamo un punto di riferimento per gran parte dei negozi di abbigliamento della città che ci affidano le modifiche ai capi venduti. Insomma un lavoro che mi continua a dare tante soddisfazioni. I miei dipendenti sono con me da anni, siamo un bel team. Adesso sono anche docente in alcuni corsi regionali di formazione organizzati da Irecoop».

Questo il presente. Per il futuro crede che i vostri figli continueranno l’attività?

«Mai dire mai. Per ora abbiamo voluto che studiassero ed avessero una formazione universitaria. Sara, 26 anni, ha conseguito la triennale in economia e la magistrale in diritto tributario e lavora in una multinazionale di servizi alle aziende, a Milano. Matteo, 23 anni sta frequentando un corso di laurea quinquennale in diritto ed economia. Il domani … si vedrà».

 




“Le Origini”, un panificio nato dall’amore per un figlio celiaco

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C’è una storia d’amore alla base dell’avventura imprenditoriale di Cecilia Balugani e di suo marito Fausto Zanella, quella nei confronti del figlio affetto da celiachia sin dall’età di tre anni. Da genitori, i due si trovavano, quotidianamente, davanti alle difficoltà nel reperire alimenti sani e freschi compatibili con la patologia autoimmune del bambino. Cecilia, laureata in scienze e tecnologie alimentari si occupava di processi di qualità in un’azienda edile mentre Fausto lavorava come rappresentante di caffè. Nei ritagli di tempo però avevano incominciato a sperimentare ricette prive di glutine sfornando pani, pizze, focacce, biscotti e dolci così da offrire al figlio l’opportunità di consumare alimenti genuini per la colazione o per la merenda. Pian piano si è fatta strada in loro l’idea di trasformare questa esperienza in una vera e propria attività e così hanno preso la decisione di licenziarsi dai rispettivi impieghi e di investire le liquidazioni in un panificio “gluten free”. Hanno individuato un locale in via Gobetti 39, a Piacenza, vicino al parco della Galleana, in una zona ben popolata, facilmente raggiungibile in auto e dotata di parcheggi. Si sono calati nel ruolo di muratori, imbianchini ed arredatori. Hanno recuperato mobili di famiglia fra cui una piattaia, la credenza di una nonna, un antico pulpito ed un bancone da sagrestia (con tanto di fessura per le offerte). Hanno creato un ambiente accogliente, che ti fa sentire subito a casa. Grazie anche al supporto di Confcommercio Piacenza, il 5 dicembre 2023, hanno aperto ufficialmente le porte de “Le Origini” nome che richiama ad un ritorno a cibi e farine del passato ma che nasconde (non troppo) un richiamo al figlio.

A nemmeno un anno di distanza l’attività si è già conquistata una solida clientela e sta diventando un punto di riferimento per i celiaci, ma non solo.

«Ho incominciato con il supporto di mio marito Fausto – racconta la titolare Cecilia Balugani – ed ora abbiamo già l’aiuto di Marcelo, 27 anni che lavora part-time per noi e per un altro forno. A beve dovremmo riuscire ad inserire una quarta persona, un pasticcere, sempre a tempo parziale, così da poter avere una nuova professionalità ed anche un po’ di respiro».

Perché gli orari, dovendo panificare, saranno “tosti” …

«Dobbiamo esser qui alle 5 del mattino. Le macchine ci danno una grossa mano ma la presenza è comunque necessaria.  Chiudiamo alle 13 e riapriamo alle 15 per finire alle 20. Davvero tante ore ma in questa fase era necessario avviare bene il negozio. Fisicamente pesa ma mi auguro che possiamo strutturarci sempre meglio per il futuro».

Come sta andando?

«Siamo davvero molto contenti. Abbiamo clienti di Piacenza e tanti che vengono da Cremona, Brescia, Bergamo, Mantova e da città limitrofe. Fanno scorta di pane, pizze, focacce brioche ed una volta a casa le surgelano. Abbiamo anche avuto parecchi stranieri in visita nella nostra provincia che ci hanno trovato attraverso l’App dell’AIC, l’Associazione Italiana Celiachia che indica negozi e ristoranti con prodotti senza glutine. Ci dà grande soddisfazione ricevere i ringraziamenti di tante persone, come quello recente di un marito che ha finalmente potuto festeggiare il compleanno della moglie con una torta adatta anche a lei che è celiaca. Facciamo inoltre prodotti per così dire “sartoriali”, andando incontro alle esigenze e problematiche di chi ha determinate patologie come il diabete o intolleranze ai lieviti o al lattosio».

Avete progetti per il prossimo futuro?

«Stiamo lavorando per creare sempre più collaborazioni con ristoranti, pizzerie e bar di Piacenza. Forniamo loro pane, basi per pizze, piccola pasticceria senza glutine così che possano venire incontro alle esigenze dei loro clienti celiaci. Abbiamo preparato box da aperitivo con pizze, salatini e focacce per accompagnare drink in locali, un servizio take-away che ci chiedono. Partendo dalla nostra personale esperienza ci piacerebbe aprire una collaborazione con chi si occupa del settore scolastico così che gli alunni possano contare non solo prodotti senza glutine confezionati ma anche su quelli freschi. Lo stesso per quanta riguarda ospedali e case di cura».

Che farine utilizzate per creare i vostri prodotti senza glutine?

«Dobbiamo dare equilibrio ai nostri impasti ed ai nostri pani in termini di gusto ed anche sotto il profilo dietetico. Per questo utilizziamo miscele di farine ed amidi privi di glutine come il grano saraceno, il miglio, l’amaranto, la quinoa, il teff, la farina di riso o di mais».

Vi state specializzando anche in birre senza glutine.

«Mio marito Fausto nella sua precedente esperienza nel mondo delle caffetterie si occupava anche di birre e così sta mettendo a frutto le conoscenze acquisite anche sul fronte gluten free e l’offerta si sta progressivamente ampliando. Non manca nemmeno il caffè: abbiamo una macchinetta e offriamo una cialda a chiunque voglia venire qui a fare una colazione self-service con i nostri prodotti da forno, come le brioche».