Mura tra musica, sport e giornalismo racconta “Confesso che ho stonato”

Dimenticate Gianni Mura magnifico narratore delle ascese di qualche campione del ciclismo su una montagna del Tour de France o del Giro, dimenticate i racconti romantici di un campo di calcio. Ieri alla Biffi Arte durante la rassegna “L’Arte di Scrivere”, Mura ha mostrato il lato musicale di sé presentando “Confesso che ho stonato” (Feltrinelli), libro sul fascino che la canzone prevalentemente italiana ha esercitato sul giornalista milanese. A moderare Mauro Molinaroli e Giorgio Lambri. Mura

“Per scrivere il mio primo libro ho aspettato di avere 60 anni – ironizza -, forse sono un po’ pigro. Tra le cose che avevo in mente di fare all’inizio di questa avventura era una biografia su Sergio Endrigo. I giornalisti solitamente scelgono di scrivere di calciatori famosi, io avevo scelto un cantante di fama relativa”. La passione per il cantautore nato a Pola in Croazia viene dall’essenzialità dei suoi testi. “Spesso si vantava di non aver mai usato più di 2000 parole, riusciva a combinare una scrittura alta e al contempo popolare. Ci ha insegnato che per scrivere una bella canzone non servono parole auliche, lui stesso ne ha scritte di ogni genere partendo da quella d’amore, ha scritto per i bambini (Ci vuole un fiore, ndr), ha messo in musica dei testi di Pasolini. Purtroppo gli ultimi anni di vita li ha vissuti in un progressivo deterioramento fisico, soffriva di acufene”.

Il primo approccio di Mura col mondo musicale risale alla caserma. “Mio padre era maresciallo dei Carabinieri. Al tempo la televisione aveva un solo canale, che non proponeva granché di interessante, così grazie a loro ho imparato moltissime canzoni dialettali del Centro Sud e del Triveneto”.

Un altro capitolo del libro racconta la “vita spericolata” di un simbolo della musica come Edith Piaf. “Sembra scritta da uno sceneggiatore. Suo padre era un contorsionista e la madre una cantante. Il lavoro dei genitori non permetteva di allevare un figlio, così viene data in affidamento alla nonna, ammaestratrice di pulci, a cui importava poco di lei. Viene così affidata a un’altra nonna, che gestiva un bordello. Una mattina si sveglia ed è cieca, una delle ospiti del bordello la porta sulla tomba di Santa Teresa per chiedere di ridarle la vista. Questo spiega che il suo cantare era sofferenza pura. Con La vie en rose riscosse grande successo: fu pubblicata 6 mesi dopo che i tedeschi se ne andarono da Parigi, allora occupata. Era una canzone simbolica”.

Non poteva mancare durante l’intervista, un momento dedicato al calcio e all’accostamento scomodo con Gianni Brera. “Ho sempre cercato di distanziarmi da questo. Vedo nel mio modo di scrivere e nel suo grandissime differenze – ha sottolineato -, credo abbia influito più la somiglianza fisica e la passione comune per il vino rosso. Lui aveva 2 lauree e parlava fluentemente inglese, io no, ma da lui ho effettivamente imparato molto semplicemente guardandolo lavorare: mi ha insegnato ad andare controcorrente, a sbagliare in autonomia e soprattutto senza omologarsi alla massa”. Quest’ultimo aspetto tiene a sottolinearlo con vigore nella sua lectio giornalistica. “La cosa più stupida nel mestiere del giornalista è copiare uno stile altrui. Una volta c’era più cura nel modellare i giornalisti, io sono stato fortunato ad aver incontrato molte persone che mi hanno aiutato. Oggi un ragazzo che arriva in una redazione è assolutamente abbandonato a se stesso, se riesce ad arrivare in una redazione. Oggi, in particolare coi giornali online, vince il più veloce, e soprattutto non esiste quasi più la figura del correttore di bozze e la cernita delle notizie pubblicabili”.

“Il computer – continua – modifica il modo di scrivere, lo rende molto più ragionieristico. Scrivendo a macchina le parole sono molto più libere. Ai giovani d’oggi vengono fatti consumare i polpastrelli e gli occhi, per 12 ore al giorno”. Altro problema evidenziato da Mura riguarda la grafica di un giornale: “In passato gente come Brera consegnava cartelle che oggi sarebbero comparabili a 9000 caratteri, impensabile per un giornale di oggi, e sempre con una qualità eccelsa. Oggi gli spazi si sono ridotti per ingrossare i titoli dei giornali, cercando di stare al passo coi tempi di Internet”. Confesso, Mura, che c’è ancora chi usa il taccuino per scrivere i pezzi come questo.

 




Domenico Quirico mattatore alla Biffi Arte

Ufficialmente la presentazione di un libro, “Ombre dal fondo”. In realtà quella che si è consumata ieri pomeriggio alla Biffi Arte è stata una lezione di giornalismo a 360°, merito di Domenico Quirico, che ha saputo raccontare se stesso e il modo in cui sta cambiando il mondo attraverso la parola, sia scritta che parlata. In veste di moderatore Mauro Molinaroli.

Dimentichiamo innanzitutto tutto quello che abbiamo avuto modo di apprendere su come scrivere un articolo di giornale, come le 5 W o parlare in terza persona.

“Vedo che al giorno d’oggi nascono Facoltà, Master e Scuole che insegnano le tecniche per un buon articolo di giornale – ha esordito – in realtà non esiste nessuna tecnica. Quando entrai a La Stampa fu la prima cosa che mi insegnarono, mi dissero che gli inglesi furono promotori di queste regole. Nel corso del tempo ho avuto modo di dialogarci, con alcuni colleghi d’Oltremanica, nessuno diceva che fosse così”.

Prima lezione. “Il giornalismo non è tecnica e nemmeno tecnologia, non è da li che nasce l’informazione. L’unica cosa che bisogna fare è essere presenti sul posto quando accade un fatto e utilizzare la vista, fare in modo che il lettore si possa sentire partecipe della situazione, trasportare il lettore in quel luogo. In quel caso ho fatto un buon servizio”. Sostiene che nella sua carriera è stato fortunato, ha avuto la possibilità di andare in alcuni angoli del mondo “perchè mi ci hanno mandato”. “Ma – continua – avere la presenza fisica di un giornalista attorno a persone che stanno vivendo un’esperienza è qualcosa di risolutivo. Scrivere da casa limita enormemente il mio spazio di informazione. Il lettore ha il diritto che non gli vengano raccontate menzogne, deve esistere un rapporto di lealtà reciproca”.

Quirico parla poi del futuro del giornalismo. “I quotidiani esisteranno finché ci saranno persone inviate nel mondo a scrivere. C’è chi dice che il mondo non può esistere se non ci sono i giornali, assolutamente non è vero, si può vivere tranquillamente. L’importante è dare voce alle persone che soffrono davvero. Purtroppo oggi si tende a trattare qualsiasi argomento come se fosse una chiacchiera da bar, alla fine deve essere sotteso un happy end”.

Nella seconda parte dell’incontro il reporter ha raccontato la sua esperienza con Al Qaeda e con l’ISIS, e del rapimento avvenuto in Siria. “Al Qaeda si può considerare la preistoria dell’ISIS. Gli Jihadisti di oggi vedono Bin Laden come un simpatico zio. Al Qaeda era la mondializzazione del terrorismo, e Bin Laden aveva capito come la rapidità delle informazioni che in quel momento stavano fiorendo nella società, attraverso la rete, potessero avere un eco incredibile per il suo scopo, moltiplicare il terrore, portarlo nel cuore del potere”.

Ha lasciato una eredità invisibile, che a un primo sguardo non è visibile. “Ad esempio, per prendere l’aereo, oggi dobbiamo partire con larghissimo anticipo, perché ci sono un sacco di controlli. Ha rallentato l’economia, sono aumentati i costi degli investimenti in sicurezza. Ha sublimato il terrore”.

Cosa ben diversa il Califfato: “In questo caso il terrorismo è solo uno dei tanti strumenti a disposizione. Lo Stato Totalitario Islamico è un posto dove gli uomini vengono classificati non per ciò che fanno, ma per ciò che sono. L’idea è quella di purificare il mondo islamico, ricostruire una realtà storica, un concetto che a noi può risultare grottescamente antistorico, in quel contesto non lo è affatto”.