«Estate nella Bassa», un pezzo dedicato all’estate piacentina

Un’estate trascorsa nella Bassa, tra Piacenza e provincia: così nasce una canzone ironica e piuttosto divertente del gruppo “Lotteria dei Rigori”.

«É un pezzo che per un paio di minuti prova a fare dimenticare anche lo sciusso – spiega uno dei due autori – e che prova a rendere più sopportabile i mesi trascorsi dietro a bilici carichi di pomodori e all’inseguimento di un filo d’aria in collina».

Lotteria dei Rigori, perché questo nome per il gruppo?

«Nel rigore c’è una componente di intuito, bravura e freddezza. Ma anche più di un pizzico di casualità, soprattutto quando il pallone sembra entrare. Poi entra o magari no. E dal caso, oltre che da qualche andirivieni nella Bassa sono nati pezzo e gruppo».

Chi sono i componenti della Lotteria?

«C’è chi calcia il rigore e chi prova a pararlo. Di più non vi diciamo».

Sono tante le allusioni alla provincia contenute nel testo.

«Di fatto siamo dei grandi nostalgici: pensare che ci possa mancare anche la domenica al Casamercato di Alseno la dice piuttosto lunga su come viviamo il nostro rapporto con una Bassa dalla quale in tanti scappano e poi per qualche strana ragione si affrettano a tornare, dolente o nolente».

Eppure l’estate, come recitava un pezzo ben più vecchio e famoso sta finendo…

«Siamo arrivati a pubblicare il pezzo quasi a fine estate per prima cosa perché “abbiamo un po’ ballato nel manico” tra testo e arrangiamenti. Ed emulando il perfetto piacentino c’era sempre qualcosa che ci piaceva poco e andava sistemato ma c’è anche un’altra cosa da dire…».

Sarebbe?

«Che l’estate nella Bassa è più uno stato d’animo che una stagione. Forse però è meglio che io mi fermi qui sennò diventiamo hipster, ci tocca far crescere la barba e mettere pure qualche filtro sulle foto».

Nel pezzo si parla anche di amore…

«Sì, ma non è quello per il gelato della Boutique. Quello finisce sempre bene».

Sul vostro canale YouTube c’è anche un’altra canzone

«Sì, Duemila Uno. Ma non spoileriamo nulla, magari passate e date un’ascoltata mentre ripensate ai gol di Hubner. Sì, è un indizio».

Altri pezzi in cantiere?

«Al momento non abbiamo nessun altro rigore da calciare. Però potrebbe scapparci il tormentone autunnale, chissà…».




Mura tra musica, sport e giornalismo racconta “Confesso che ho stonato”

Dimenticate Gianni Mura magnifico narratore delle ascese di qualche campione del ciclismo su una montagna del Tour de France o del Giro, dimenticate i racconti romantici di un campo di calcio. Ieri alla Biffi Arte durante la rassegna “L’Arte di Scrivere”, Mura ha mostrato il lato musicale di sé presentando “Confesso che ho stonato” (Feltrinelli), libro sul fascino che la canzone prevalentemente italiana ha esercitato sul giornalista milanese. A moderare Mauro Molinaroli e Giorgio Lambri. Mura

“Per scrivere il mio primo libro ho aspettato di avere 60 anni – ironizza -, forse sono un po’ pigro. Tra le cose che avevo in mente di fare all’inizio di questa avventura era una biografia su Sergio Endrigo. I giornalisti solitamente scelgono di scrivere di calciatori famosi, io avevo scelto un cantante di fama relativa”. La passione per il cantautore nato a Pola in Croazia viene dall’essenzialità dei suoi testi. “Spesso si vantava di non aver mai usato più di 2000 parole, riusciva a combinare una scrittura alta e al contempo popolare. Ci ha insegnato che per scrivere una bella canzone non servono parole auliche, lui stesso ne ha scritte di ogni genere partendo da quella d’amore, ha scritto per i bambini (Ci vuole un fiore, ndr), ha messo in musica dei testi di Pasolini. Purtroppo gli ultimi anni di vita li ha vissuti in un progressivo deterioramento fisico, soffriva di acufene”.

Il primo approccio di Mura col mondo musicale risale alla caserma. “Mio padre era maresciallo dei Carabinieri. Al tempo la televisione aveva un solo canale, che non proponeva granché di interessante, così grazie a loro ho imparato moltissime canzoni dialettali del Centro Sud e del Triveneto”.

Un altro capitolo del libro racconta la “vita spericolata” di un simbolo della musica come Edith Piaf. “Sembra scritta da uno sceneggiatore. Suo padre era un contorsionista e la madre una cantante. Il lavoro dei genitori non permetteva di allevare un figlio, così viene data in affidamento alla nonna, ammaestratrice di pulci, a cui importava poco di lei. Viene così affidata a un’altra nonna, che gestiva un bordello. Una mattina si sveglia ed è cieca, una delle ospiti del bordello la porta sulla tomba di Santa Teresa per chiedere di ridarle la vista. Questo spiega che il suo cantare era sofferenza pura. Con La vie en rose riscosse grande successo: fu pubblicata 6 mesi dopo che i tedeschi se ne andarono da Parigi, allora occupata. Era una canzone simbolica”.

Non poteva mancare durante l’intervista, un momento dedicato al calcio e all’accostamento scomodo con Gianni Brera. “Ho sempre cercato di distanziarmi da questo. Vedo nel mio modo di scrivere e nel suo grandissime differenze – ha sottolineato -, credo abbia influito più la somiglianza fisica e la passione comune per il vino rosso. Lui aveva 2 lauree e parlava fluentemente inglese, io no, ma da lui ho effettivamente imparato molto semplicemente guardandolo lavorare: mi ha insegnato ad andare controcorrente, a sbagliare in autonomia e soprattutto senza omologarsi alla massa”. Quest’ultimo aspetto tiene a sottolinearlo con vigore nella sua lectio giornalistica. “La cosa più stupida nel mestiere del giornalista è copiare uno stile altrui. Una volta c’era più cura nel modellare i giornalisti, io sono stato fortunato ad aver incontrato molte persone che mi hanno aiutato. Oggi un ragazzo che arriva in una redazione è assolutamente abbandonato a se stesso, se riesce ad arrivare in una redazione. Oggi, in particolare coi giornali online, vince il più veloce, e soprattutto non esiste quasi più la figura del correttore di bozze e la cernita delle notizie pubblicabili”.

“Il computer – continua – modifica il modo di scrivere, lo rende molto più ragionieristico. Scrivendo a macchina le parole sono molto più libere. Ai giovani d’oggi vengono fatti consumare i polpastrelli e gli occhi, per 12 ore al giorno”. Altro problema evidenziato da Mura riguarda la grafica di un giornale: “In passato gente come Brera consegnava cartelle che oggi sarebbero comparabili a 9000 caratteri, impensabile per un giornale di oggi, e sempre con una qualità eccelsa. Oggi gli spazi si sono ridotti per ingrossare i titoli dei giornali, cercando di stare al passo coi tempi di Internet”. Confesso, Mura, che c’è ancora chi usa il taccuino per scrivere i pezzi come questo.