Il Bionico Torre racconta il suo lato “umano” durante la presentazione del libro #TorreSindaco

Ci ha fatto ridere (tanto) durante i suoi comizi, ci ha fatto riflettere con le sue proposte bizzarre per la città che nascondevano evidenze forse non così palesi da vedere. C’era bisogno della satira per tirarle fuori. Dopo le amministrative Stefano Torre ha deciso di raccontarsi, di essere “serio”, cosa che avrebbe fatto anche in Consiglio Comunale, qualora fosse stato eletto (ma c’è andato vicino).

“Non mi sarei mai permesso di prendere in giro un’istituzione”, dice. L’ha fatto nella sede di Papero Editore, casa editrice che ha pubblicato un libro a lui dedicato, scritto da Marcello Pollastri, con appendice di Thomas Trenchi ed Enzo Latronico. Alla presentazione di ieri c’erano l’autore, Giorgio Lambri, capocronista di Libertà, Paolo Rizzi, candidato sindaco di Piacenza ed amico di lunga data di Torre, e ovviamente il protagonista del libro. <<Il mio tentativo - sottolinea - non era certo quello di diventare sindaco, ma di mettere le persone a governare la città. E' comico guardare i video dei comizi, in cui alcuni candidati erano più comici di me. La mia azione non credo sia stata di antipolitica, è servita a restituire alla gente il senso della propria sovranità. Un signore incontrato al mercato mi ha ringraziato dicendomi: “Lei ci ha insegnato che farsi prendere in giro è una cosa seria”. La politica ha preso sistematicamente in giro l’elettorato considerandolo incapace di riconoscere il vero dal falso, portandolo ad uno stato di disagio così ampio da averlo fatto smettere di andare a votare, equivale ad aver scippato lo scettro a chi detiene il potere decisionale>>.

Lambri, che è anche corrispondente da Piacenza per l’Agenzia ANSA, racconta la genesi del fenomeno. “Ho considerato interessante il fenomeno sin dalla genesi, quando Torre faceva i comizi a Bettola, città natale di Pierluigi Bersani. Ho visto i video su Youtube e Facebook, notando che la gente lo osservava incuriosita. Sono stato molto contento di constatare che si candidava a Piacenza. Il suo ruolo si era esaurito nel momento in cui aveva portato il paradosso vero durante le elezioni, la politica dovrebbe tornare a contenuti seri”.

Pollastri ha sottolineato il legame di amicizia che si è instaurato con Stefano. “Mi colpiva sempre la freddezza con cui diceva certe cose. Poi ho scoperto la sua storia personale, molto difficile, legata alla distonia, che lo ha portato a 15 anni di vera sofferenza“.

Rizzi ha voluto condividere i ricordi del passato, quando entrambi vestivano i panni di consiglieri comunali nel periodo 1994 – 1998, durante l’amministrazione Vaciago. “Allora non c’era il limite di tempo massimo per gli interventi, come accade ora, perciò gli interventi di Stefano duravano anche mezz’ora. La Lega aveva persone di spessore. L’operazione che ha intrapreso è molto pericolosa, gliel’ho detto, perchè estremizzare la critica rischia verso la politica rischia di delegittimarla. Mi piaceva la sua proposta perchè oltre a far ridere faceva pensare”. Ma cosa sarebbe successo se Stefano Torre fosse entrato in Consiglio? “Il gettone di Consigliere mi avrebbe sicuramente permesso di comprare 5 squadre di Subbuteo”. Ah, ecco. Torre è tornato. 

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Mura tra musica, sport e giornalismo racconta “Confesso che ho stonato”

Dimenticate Gianni Mura magnifico narratore delle ascese di qualche campione del ciclismo su una montagna del Tour de France o del Giro, dimenticate i racconti romantici di un campo di calcio. Ieri alla Biffi Arte durante la rassegna “L’Arte di Scrivere”, Mura ha mostrato il lato musicale di sé presentando “Confesso che ho stonato” (Feltrinelli), libro sul fascino che la canzone prevalentemente italiana ha esercitato sul giornalista milanese. A moderare Mauro Molinaroli e Giorgio Lambri. Mura

“Per scrivere il mio primo libro ho aspettato di avere 60 anni – ironizza -, forse sono un po’ pigro. Tra le cose che avevo in mente di fare all’inizio di questa avventura era una biografia su Sergio Endrigo. I giornalisti solitamente scelgono di scrivere di calciatori famosi, io avevo scelto un cantante di fama relativa”. La passione per il cantautore nato a Pola in Croazia viene dall’essenzialità dei suoi testi. “Spesso si vantava di non aver mai usato più di 2000 parole, riusciva a combinare una scrittura alta e al contempo popolare. Ci ha insegnato che per scrivere una bella canzone non servono parole auliche, lui stesso ne ha scritte di ogni genere partendo da quella d’amore, ha scritto per i bambini (Ci vuole un fiore, ndr), ha messo in musica dei testi di Pasolini. Purtroppo gli ultimi anni di vita li ha vissuti in un progressivo deterioramento fisico, soffriva di acufene”.

Il primo approccio di Mura col mondo musicale risale alla caserma. “Mio padre era maresciallo dei Carabinieri. Al tempo la televisione aveva un solo canale, che non proponeva granché di interessante, così grazie a loro ho imparato moltissime canzoni dialettali del Centro Sud e del Triveneto”.

Un altro capitolo del libro racconta la “vita spericolata” di un simbolo della musica come Edith Piaf. “Sembra scritta da uno sceneggiatore. Suo padre era un contorsionista e la madre una cantante. Il lavoro dei genitori non permetteva di allevare un figlio, così viene data in affidamento alla nonna, ammaestratrice di pulci, a cui importava poco di lei. Viene così affidata a un’altra nonna, che gestiva un bordello. Una mattina si sveglia ed è cieca, una delle ospiti del bordello la porta sulla tomba di Santa Teresa per chiedere di ridarle la vista. Questo spiega che il suo cantare era sofferenza pura. Con La vie en rose riscosse grande successo: fu pubblicata 6 mesi dopo che i tedeschi se ne andarono da Parigi, allora occupata. Era una canzone simbolica”.

Non poteva mancare durante l’intervista, un momento dedicato al calcio e all’accostamento scomodo con Gianni Brera. “Ho sempre cercato di distanziarmi da questo. Vedo nel mio modo di scrivere e nel suo grandissime differenze – ha sottolineato -, credo abbia influito più la somiglianza fisica e la passione comune per il vino rosso. Lui aveva 2 lauree e parlava fluentemente inglese, io no, ma da lui ho effettivamente imparato molto semplicemente guardandolo lavorare: mi ha insegnato ad andare controcorrente, a sbagliare in autonomia e soprattutto senza omologarsi alla massa”. Quest’ultimo aspetto tiene a sottolinearlo con vigore nella sua lectio giornalistica. “La cosa più stupida nel mestiere del giornalista è copiare uno stile altrui. Una volta c’era più cura nel modellare i giornalisti, io sono stato fortunato ad aver incontrato molte persone che mi hanno aiutato. Oggi un ragazzo che arriva in una redazione è assolutamente abbandonato a se stesso, se riesce ad arrivare in una redazione. Oggi, in particolare coi giornali online, vince il più veloce, e soprattutto non esiste quasi più la figura del correttore di bozze e la cernita delle notizie pubblicabili”.

“Il computer – continua – modifica il modo di scrivere, lo rende molto più ragionieristico. Scrivendo a macchina le parole sono molto più libere. Ai giovani d’oggi vengono fatti consumare i polpastrelli e gli occhi, per 12 ore al giorno”. Altro problema evidenziato da Mura riguarda la grafica di un giornale: “In passato gente come Brera consegnava cartelle che oggi sarebbero comparabili a 9000 caratteri, impensabile per un giornale di oggi, e sempre con una qualità eccelsa. Oggi gli spazi si sono ridotti per ingrossare i titoli dei giornali, cercando di stare al passo coi tempi di Internet”. Confesso, Mura, che c’è ancora chi usa il taccuino per scrivere i pezzi come questo.