Proibendo la mutagenesi l’Europa si danneggia da sola

Fa discutere la recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ha stabilito, in linea di principio, che gli organismi ottenuti mediante nuove tecniche di mutagenesi rientrano nella sfera di applicazione della direttiva europea in materia di OGM.

“E’ stato così contraddetto il parere depositato a gennaio dall’avvocatura generale – commenta Marco Casagrande, direttore di Confagricoltura Piacenza -. Inoltre, la stessa Corte, in modo ambiguo, non considera come Ogm gli organismi ottenuti da mutagenesi attraverso tecniche utilizzate convenzionalmente e con lunga tradizione di sicurezza, e affida, in ogni caso, agli Stati membri la facoltà di includere anche questi ultimi tra gli Ogm. Il mondo scientifico si è più volte espresso a favore degli Ogm – prosegue Casagrande –. Citiamo ad esempio i risultati evidenziati dal team di ricerca della Professoressa Laura Ercoli della Scuola Superiore Sant’Anna, pubblicati da Nature. Abbiamo avuto il piacere di poter ospitare la professoressa per una relazione nel nostro ciclo A Cena Con La scienza e anche in quell’occasione i diversi accademici, tra cui il Georgofilo, il Professor Michele Stanca, hanno ribadito come le mutazioni genetiche siano, da un lato, alla base dell’evoluzione e, dall’altro, come la cisgenesi sia ben diversa dalle tecniche che intervengono sulla modifica del genoma con elementi estranei alla specie. Ma a nulla pare valere il parere della Scienza”.

Per farla semplice la cisgenesi è un incrocio di ultima generazione tra specie vegetali che mima in laboratorio ciò che accade in natura.  Il concetto fondamentale è che il trasferimento di DNA avviene tra due piante della stessa specie o tra specie sessualmente compatibili. In pratica si velocizza e rende mirato ciò che che i contadini fanno da millenni con le tradizionali tecniche di innesto.

“Come ci ha spiegato il professore Stanca – ricorda Casagrande –  la cisgenesi ha il vantaggio di trasferire solo i caratteri genetici desiderati, utili ad aumentare la resistenza delle piante ai cambiamenti climatici, ai patogeni o ad arricchire le specie di sostanze nutritive. Se le piante diventano più resistenti alle malattie servono meno trattamenti chimici”. Confagricoltura Nazionale, da subito, ha preso posizione, esprimendo “profonda sorpresa” per la sentenza della Corte di Giustizia europea. Per criticare la sentenza della Corte di Giustizia della UE è scesa in campo pure la Fnsea, la principale Organizzazione delle imprese agricole francesi.  In un comunicato, sottoscritto anche dalle associazioni dei produttori di grano, mais, bietole e proteoleaginose, si sottolinea che la sentenza avrà “pesanti conseguenze per i consumatori e per gli agricoltori. Un’agricoltura carente sotto il profilo delle innovazioni varietali non potrà far fronte alle sfide poste dal cambiamento climatico e rispondere alle attese dei consumatori, che sollecitano il settore agricolo a ridurre l’utilizzo di prodotti fitosanitari”.

Critiche anche dal mondo agricolo spagnolo, con l’Asaja (Associazione dei giovani agricoltori) che ha posto in risalto che “l’Europa perderà competitività, dato che altri blocchi di paesi sviluppati o di paesi in via di sviluppo, stanno avanzando con queste tecnologie, mettendo a disposizione degli agricoltori i risultati che ottengono. I concorrenti diretti dell’Ue sui mercati internazionali, come gli Stati Uniti e la Cina, stanno lavorando intensamente sulla mutagenesi”.

“Siamo amareggiati per questa ulteriore occasione persa – conclude Casagrande –. Queste tecniche innovative, in continua evoluzione, sono uno strumento fondamentale per garantire risultati importanti per la salvaguardia delle nostre produzioni, e sono il nostro miglior alleato per difendere la competitività della nostra agricoltura già sotto scacco perché deficitaria e costretta a confrontarsi sul mercato, oggi perdendo, con chi usa l’innovazione.  Auspichiamo che si possa aprire un dibattito politico serio per una revisione di tutta la normativa in materia, attraverso valutazioni basate sui dati scientifici e non sui pregiudizi ideologici”.




Panorama d’Italia ha fatto tappa a Piacenza per discutere di sviluppo economico

Piacenza non ha dati economici confortanti, ma può vantare eccellenze che possono farla crescere a patto che lo sviluppo sia governato da una classe dirigente capace. Questa, in estrema sintesi, la conclusione a cui è giunto il dibattito con le associazioni di categoria (“Lo sviluppo economico delle attività produttive”) che si è tenuto a Palazzo Galli nell’ambito della terza tappa 2018 del tour Panorama d’Italia (di scena a Piacenza e a Reggio Emilia), l’iniziativa del settimanale alla scoperta delle eccellenze turistiche ed economiche del territorio italiano.

Dopo il saluto introduttivo del direttore di Panorama Raffaele Leone («Siamo contenti di essere qui perché da queste parti ci sono tante bellezze, anche economiche e imprenditoriali») e del presidente di Assopopolari e del Comitato esecutivo della Banca di Piacenza Corrado Sforza Fogliani («Piacenza è un crocevia di strade consolari, pellegrini, mercanti e banchieri, crocevia nel quale confluisce Panorama, con la Banca felice di accogliere un tour prestigioso. Il credito ha una funzione molto importante per lo sviluppo. Per le organizzazioni di categoria è un errore pensare che le norme europee che ostacolano la funzione delle banche sia solo un loro problema, perché in realtà è un problema di tutti, anche delle imprese»), sono intervenuti – stimolati dalle domande di Nicola Porro, vicedirettore de il Giornale e conduttore televisivo – Giuseppe Nenna, presidente del CdA della Banca di Piacenza, Cesare Betti, direttore Confindustria Piacenza, Cristian Camisa, presidente Confapi Piacenza, Giancarlo Morandi, presidente del Cobat, Luca Altieri, direttore Marketing Ibm Italia, Marco Casagrande, direttore Confagricoltura Piacenza, Marco Crotti, presidente Coldiretti Piacenza, Giuseppe Cavalli, presidente di Piacenza Expo.

Al termine dell’interessante dibattito, il vicesindaco Elena Baio ha portato i saluti dell’Amministrazione comunale annunciando gli “Stati generali della ricerca” che si terranno a Piacenza il 15 e 16 giugno, sottolineando che «la ricerca è fondamentale per lo sviluppo» e invitando all’iniziativa Panorama d’Italia.

Ma torniamo agli interventi.

Giuseppe Nenna, sottolineato che la Banca di Piacenza è l’unica banca locale, si è dichiarato ottimista: «La Banca ottiene risultati positivi nonostante la crisi economica degli anni passati e anche se fare banca, con tassi negativi, diventa difficile, l’efficienza sviluppata in passato sommata ai segnali di timida ripresa, ci consente di guardare con fiducia al futuro. Mentre gli altri lo hanno diminuito, noi abbiamo aumentato il finanziamento alle imprese del 2,5%». Rispondendo alle domande di Nicola Porro, il presidente Nenna ha criticato l’eccessiva produzione di norme europee sulle banche («l’eccesso di burocrazia ci costa un milione di euro l’anno») e fatto presente come la Banca di Piacenza non si occupi solo di economia e finanza, ma anche di cultura («con la Salita al Pordenone stiamo portando a Piacenza tanti turisti, anche stranieri»).

Cesare Betti ha fatto una panoramica sull’andamento dell’industria piacentina, ponendo l’accento – nonostante la crisi economica abbia lasciato segni evidenti – sul dato occupazionale: «A Piacenza siamo al 69,4%, contro il 58% del dato nazionale; il tasso di disoccupazione si attesta al 6,1%, in Italia siamo all’11,2». Il direttore della locale Confindustria ha quindi citato come settori trainanti la logistica e la meccatronica (ancora in sofferenza, invece, l’edilizia) e, rispondendo a un quesito sul credito, ha spiegato che passata la tempesta della crisi non è più un grosso problema (anche se lo è stato): «A una guerra quale è stata la crisi economica, sono sopravvissute solo le aziende più forti, le più sane».

«Il problema del credito nasce dal fatto che si continua a dire che piccolo non è bello in un Paese dove il 90% del tessuto industriale è rappresentato da piccole e medie imprese – ha evidenziato Cristian Camisa -. Piccolo invece è un valore aggiunto, anche per le aziende di credito. Qui la banca locale è attenta alle aziende, le grandi banche spesso fanno credito a chi non ne ha bisogno». A giudizio del presidente Confapi, Piacenza è un territorio di confine con eccellenze che non è riuscita a sfruttare pienamente, dove si è sviluppata una logistica “povera” e con settori in salute da valorizzare, come il packaging che, indotto compreso, offre lavoro a 2500 persone.

Giancarlo Morandi, del Consorzio nazionale raccolta e riciclo, ha spiegato i benefici dell’economia circolare (un sistema economico, cioè, pensato per potersi rigenerare da solo): «Il suo sviluppo è necessario per evitare di avere un futuro alla Blade Runner. Un bene viene prodotto e venduto e, in base alle norme europee, deve essere recuperato e riciclato se non è possibile il suo riuso. Così facendo avremo un Paese pulito e con risorse immense ricavate dai rifiuti. Faccio un esempio: con la raccolta delle batterie esauste, fin dal 2008 si è evitato al pianeta la costruzione di una miniera lunga 20 chilometri per estrarre piombo».

Luca Altieri (Ibm) ha affermato che «la tecnologia digitale è la condicio sine qua non per lo sviluppo delle imprese, che devono saper coglierne i benefici. Occorre investire in intelligenza artificiale, così come sta facendo Macron in Francia, però è necessario che le maestranze siano all’altezza dell’industria 4.0».

Stefano Cavalli di Piacenza Expo ha illustrato la strategia per incentivare il settore fieristico, puntando su settori particolareggiati che rappresentino quella novità che possa attrarre anche dall’estero. «Dobbiamo sfruttare la posizione strategica della nostra fiera, far conoscere la struttura, perché più fiera significa più sviluppo economico». Cavalli, accennando al settore edile, di cui si occupa nello svolgimento della propria attività imprenditoriale, ha lamentato la mancanza di manodopera qualificata. Un problema evidenziato anche da tutti i rappresentanti delle associazioni di categoria.

E’ poi stato il turno  Marco Casagrande, da poco direttore di Confagricoltura Piacenza.

“La nostra – ha sottolineato Casagrande – è un’agricoltura più che avanzata che dosa con estrema razionalità tutti i fattori produttivi per produrre delle eccellenze. Le esportazioni agroalimentari italiane hanno raggiunto 38,4 miliardi di euro nel 2016, contro poco più di 20 miliardi del 2005, crescendo a un tasso medio annuo del 5,8%, ben più elevato del +3,0% fatto registrare dall’export complessivo nazionale. Eppure le importazioni hanno comunque sfiorato 43 miliardi di euro nel 2016, contro quasi 30 miliardi di euro nel 2005. Una sensibile riduzione del disavanzo in valore, ma la bilancia commerciale dei prodotti agroalimentari dell’Italia resta strutturalmente deficitaria: mancano le materie prime. L’agricoltura, pur riuscendoci, fatica a svilupparsi perché è criminalizzata. Nel pensare comune ”intensivo” è uguale a “negativo” e “non sostenibile”.

Le imprese, poi – ha proseguito Casagrande – lottano contro una burocrazia che gli stessi sistemi informatici preposti a governarla non sono in grado di gestire e si bloccano generando ulteriori appesantimenti.  Sono inefficienze che si pagano. Lo sviluppo impone un’agricoltura che possa lavorare in cordata con l’industria ed esser competitiva. Confagricoltura non è contro le tipicità e le nicchie, che però non possono essere gli unici elementi di sostegno del settore, l’innovazione è lo sviluppo della tradizione e quello che oggi è tradizione una volta era innovazione. Le opportunità sono enormi, e sono segnalate anche dai 60 miliardi di fatturato a livello globale che genera l’Italian Sounding, un mercato che dobbiamo andare a riprenderci insieme all’industria agroalimentare. Il tema di oggi – ha concluso il direttore di Confagricoltura Piacenza –  è cercare di impostare nuove politiche con le quali favorire ed accompagnare la crescita delle imprese, invece di ostacolarla, per consentire all’agricoltura moderna di dare un contributo al Paese per far crescere il Pil e l’occupazione.

Chi è Marco Casagrande

Marco Casagrande diretore ConfagricolturaSessant’anni, piacentino (padre di Piacenza, mamma di Cortemaggiore), sposato con due figli, è laureato in Agraria alla Cattolica. Marco Casagrande vanta una lunga esperienza ad alti livelli nel mondo della produzione industriale, soprattutto nel settore dei trasformati del lattiero-caseario. Ha lavorato, tra gli altri, per Galbani, Yomo (9 anni), Sammontana (8 anni), Esselunga (curando la produzione interna nella stabilimento di Parma) ed Emmi, il più grande produttore caseario svizzero.

Ora una nuova sfida nella sua città, alla guida di un’organizzazione che aggrega oltre tremila aziende. «Il mondo agricolo – ci ha dichiarato il direttore di Confagricoltura – ha tanto bisogno di cambiare mentalità. Ho accettato questa sfida perché il primario è uno dei pochi settori in cui l’associazionismo di categoria ha ancora un senso: c’è infatti molta frammentazione e solo uniti di può ottenere un buon potere contrattuale. A volte siamo troppo individualisti».

«Il nostro settore – prosegue Casagrande – ha bisogno di non essere continuamente criminalizzato. Poi scontiamo un deficit di materie prime per l’industria che ci penalizza, costringendoci all’import. E’ necessario allargare le produzioni, senza rifugiarci troppo nei prodotti di nicchia. Il protezionismo del made in Italy può anche andare bene, ma solo se non penalizza i quantitativi della produzione. I mercati all’estero si conquistano creando le piattaforme di vendita. Non dobbiamo limitare la produzione; il prezzo lo fa il mercato. E noi abbiamo bisogno di Pil e di occupazione».




Confagricoltura: “Scelte incomprensibili dal Consorzio del Grana. Favoriscono formaggi stranieri”

In un mercato lattiero caseario in cui, a fronte di un incremento di latte disponibile, si è registrato un ulteriore calo della remunerazione, poco o nulla si è fatto per cercare nuovi sbocchi commerciali.

Non è stato possibile aumentare proporzionalmente la produzione di Grana Padano, vincolata ai piani produttivi, e quote crescenti di mercato sono quindi state occupate da prodotti smarchiati.

«Se l’Italian Sounding vale, nel suo complesso, 60 miliardi di fatturato all’anno – sottolinea Marco Casagrande, direttore di Confagricoltura Piacenza – torniamo a ripetere che non sono le armi spuntate del contingentamento della produzione e del protezionismo che ci consentiranno di conquistare fette di mercato ora occupate dai competitor esteri. Ora – prosegue Casagrande – a fronte del problema, rileviamo un’ulteriore presa di posizione, da parte del Consorzio del Grana Padano, incomprensibile dal punto di vista commerciale».

Confagricoltura Piacenza è infatti stata informata di una modifica statutaria che vincolerà i Consiglieri del Consorzio del Grana Padano impedendo loro la produzione diretta e indiretta di formaggi similari, e tollerando, sempre da parte dei Componenti del Consiglio Direttivo, la commercializzazione di similari nella percentuale massima del 20% sul fatturato di Grana Padano e la commercializzazione solo del 5% (sul fatturato/base annua di Grana Padano) di similari di produzione italiana.

«Si tratta di un’azione a nostro giudizio gravissima – sottolinea il direttore di Confagricoltura Piacenza –  che, di fatto, renderà ancor più difficile la collocazione sul mercato di latte italiano trasformato perché in Consiglio siedono i più grandi player commerciali del settore».

In particolare, sottolinea Confagricoltura Piacenza, così, si limita fortemente la produzione di formaggi non marchiati ottenuti con latte nazionale, che costituivano uno sbocco per i quantitativi che la filiera del Grana Padano non era in grado di valorizzare. Si tratta di prodotti comunque rispondenti ad elevati standard qualitativi e igienico-sanitari in quanto sottoposti agli stringenti controlli previsti dalla normativa italiana, analisi condotte dagli stessi enti che controllano anche le produzioni Dop. I similari di origine italiana stanno avendo un buon riscontro di mercato arginando, di fatto, il dominio di quelli stranieri che spuntano sì prezzi ulteriormente inferiori, ma sono realizzati spesso nel contesto di un quadro normativo meno stringente (con minori costi produttivi) e quindi anche con standard qualitativi incerti.

«Ci sembra paradossale questo atteggiamento autolesionista – conclude Casagrande – per il quale sono state previste percentuali di commercializzazione inaccettabilmente incentivanti per il prodotto importato, penalizzando quello nazionale, con ripercussioni, ancora una volta, sugli allevatori italiani riducendo le già scarse opportunità di incrementare le loro produzioni».

Confagricoltura Piacenza rimarca che nessun piano di sviluppo imprenditoriale passa attraverso la chiusura e l’autolimitazione. Quale sarà il futuro della nostra zootecnia e delle nostre produzioni lattiero-casearie nel momento in cui un asset così importante favorisce, di fatto, il latte straniero?