Educazione finanziaria, a Palazzo Galli cento studenti a “lezione”

Erano circa 200 gli studenti piacentini (degli istituti Romagnosi, Colombini e Gioia) che hanno affollato il Salone dei Depositanti di Palazzo Galli per assistere alla lezione di educazione finanziaria con Banca di Piacenza, FEduF (la Fondazione per l’educazione finanziaria e al risparmio dell’Abi) e Istituto Bruno Leoni sull’“Economia delle scelte”. Un’iniziativa che rientrava negli eventi di #ottobreEdufin2019, il mese dell’educazione finanziaria promosso dal Comitato ministeriale costituito allo scopo e diretto dalla piacentina Annamaria Lusardi.

Dopo l’intervento introduttivo del condirettore della Banca Pietro Coppelli (che, in particolare, ha portato il saluto del presidente esecutivo e vicepresidente FEduF Corrado Sforza Fogliani, impegnato all’estero), la dinamica lezione (che ha coinvolto i ragazzi con un quiz a squadre e premi ai vincitori) è stata illustrata dal direttore generale di FEduF Giovanna Boggio Robutti.

L’economia – è stato spiegato ai ragazzi – non è solo per gli esperti: occorre conoscerne i meccanismi perché influenza le scelte della nostra vita.

«Se non vi occupate di economia – ha efficacemente esemplificato Beppe Ghisolfi, banchiere e giornalista, vicepresidente del Gruppo europeo delle Casse di risparmio e consigliere Abi – è l’economia che si occupa di voi». Il prof. Ghisolfi, vero pioniere dell’educazione finanziaria nelle scuole (oggi a Piacenza e domani in volo per Washington, dove parteciperà con il Presidente Mattarella a una cena con Trump), ha denunciato la scarsa conoscenza dei termini finanziari nel nostro Paese: «Secondo un’indagine della Consob – ha riferito – il 97% degli italiani non sa cosa voglia dire diversificare; alcuni giorni fa parlavo con politici di fama e ignoravano il funzionamento dello spread»).

La prima parte di lezione è stata svolta da Igor Lazzaroni dell’Ufficio stampa FEduF che -utilizzando slide, filmati e con esempi pratici – ha stimolato gli studenti a ragionare sulle dinamiche cognitive che influenzano le nostre scelte personali e sulle conseguenze non intenzionali che da esse derivano («le nostre scelte hanno sempre implicazioni economiche: da con che mezzo decidete di andare a scuola, a che cosa decidete di mangiare in pausa pranzo»). Il dott. Lazzaroni ha spiegato ai ragazzi quanto sia importante gestire la “paghetta”, sottolineando il valore del risparmio come strumento per imparare a programmare, e invitato i genitori a non farsi usare dai figli come bancomat. Capitolo a parte è stato riservato alla consapevolezza delle scelte, soprattutto quando si acquista: meglio prestare attenzione ai meccanismi che ci condizionano, come l’ancorare psicologicamente un prezzo a un determinato bene e poi fissarne uno molto più basso, così dal farlo sembrare conveniente.

Il prof. Carlo Lottieri, docente di Filosofia del diritto all’Università di Verona e direttore del Dipartimento di teoria politica dell’Istituto Bruno Leoni, ha invece trattato degli effetti, visibili ed invisibili, delle decisioni pubbliche, soffermandosi in particolare sull’attualissimo tema dei dazi (dimostrandone il diretto impatto sulla quotidianità delle famiglie) e della concorrenza. Due i fattori, secondo Lottieri, che nel corso dei secoli hanno condizionato positivamente l’umanità: lo sviluppo degli scambi («importantissimo») e la globalizzazione («che ha ridotto il numero di persone che vivono in condizioni di estrema povertà»). Citando lo studio dell’economista americano Leonard Read sulla produzione delle matite, il prof. Lottieri ha dimostrato come il mercato intrecci le nostre attività e porti le persone, inconsapevolmente, a cooperare («la divisione del lavoro non avviene perché qualcuno stabilisce chi deve fare cosa»), con il denaro che svolge un ruolo cruciale. Il docente ha quindi giudicato negativamente lo politica dei dazi («creano tensioni politiche che possono portare a guerre commerciali; isolano le economie e rafforzano i regimi oppressivi; impediscono ai Paesi poveri di crescere») e – attraverso la teoria di Ricardo sulla divisione del lavoro – dimostrato come la concorrenza giovi a tutti e stimoli l’innovazione «spingendoci ad andare dove si è portati a dare il meglio di sé».

Alle due parti di lezione è seguito un quiz a squadre (a gruppetti di massimo 5 studenti) con domande alle quali si poteva rispondere interattivamente grazie all’app Kahoot!. In entrambi i casi, la vittoria è andata a tre ragazze di 5ª dell’indirizzo Economico-sociale del Colombini (Alice Ragalli, Anna Barberini ed Eleonora Casali, accompagnate dalla prof. Luisa Paciello Carafa), che hanno ricevuto in premio (dal prof. Ghisolfi) una “Guida per ragazzi e ragazze che vogliono scegliere il proprio futuro”, scritta da Emanuela Lancia, e un buono per l’acquisto di libri.

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L’impietosa fotografia dell’Italia fatta dal giornalista Davide Giacalone

«Può essere normale un Paese dove non si fanno più figli e nel passeggino si portano i cani e che spende 2 miliardi di euro per gli animali domestici a fronte degli 835 milioni utilizzati per sfamare e vestire i bebè?».

La risposta di Davide Giacalone, ospite della Banca di Piacenza a Palazzo Galli per la presentazione del suo libro “Arrivano i barbari” (Rubbettino editore), è netta: «No».

Sala Panini ha tributato all’illustre ospite – presentato dal vicedirettore generale dell’Istituto di credito di via Mazzini, Pietro Boselli – un lunghissimo applauso finale, segno dell’apprezzamento del numeroso pubblico intervenuto per l’efficacia e la chiarezza dell’analisi – a tratti impietosa – della situazione socio-economica italiana, fatta dal giornalista e scrittore.

Il quale è partito mostrando la prima pagina del Financial Times, che ci dedica un titolo come “Malato d’Europa”: siamo, infatti, l’unico Paese dell’area euro che è riuscito a perdere; gli altri – chi più, chi meno – sono cresciuti.

«Com’è possibile  – si è domandato Giacalone – che la seconda potenza industriale europea e uno dei cinque Paesi al mondo ad avere la Bilancia commerciale in attivo, non abbia ancora recuperato la posizione, rispetto al Pil, che aveva nel 2008, prima della crisi?». Sulla risposta da dare «è bene che ci siano opinioni diverse, ma sui dati e sulla realtà dei fatti non dobbiamo prenderci in giro».

Davide Giacalone ha quindi fatto un salto indietro nel tempo, al secondo dopoguerra, quando il debito pubblico era altissimo, ma fu repentinamente abbattuto («Governatore della Banca d’Italia era un certo Luigi Einaudi, diventato poi Presidente della Repubblica»).

Tra il 1950 e il 1970 l’Italia conobbe il boom economico, diventando una potenza industriale: il debito pubblico era il 35 per cento del Pil, oggi siamo al 132 per cento.

«In quei vent’anni – ha sostenuto il relatore – la lira non fu mai svalutata. Quindi non è vero, come tutti dicono, che senza deficit e senza elasticità della moneta non si può crescere. La formula magica per ottenere i risultati del boom economico era semplice: la mattina ci si alzava e si andava a lavorare. Oggi gli occupati non raggiungono il 59 per cento della popolazione attiva. L’Ue ha posto l’obiettivo di arrivare al 70 per cento entro il 2020, soglia che la Germania ha già superato. Invece di guardare agli anni Sessanta, quando lo spread era negativo, ci preoccupiamo di come andare in pensione prima e di dare un reddito a chi non lavora. Dimenticando che se consumi ciò che non produci, generi debito».

Perché l’Italia rallenta? A parere di Giacalone c’è un problema di Istruzione (abbiamo la più bassa percentuale di laureati nei giovani tra i 25 e i 34 anni, con il risultato che un posto di lavoro su 4 non viene occupato perché non si trova chi lo sappia fare); c’è poi un problema di Giustizia («inutile mettere regole se non si è in grado di farle rispettare; l’Italia è insieme la culla e la tomba del diritto»).

Ma c’è soprattutto un problema di imbarbarimento della società (ecco il tema del libro), che è la conseguenza dei dati negativi della nostra economia.

«Siamo sempre pronti a dare la colpa ai politici, alle classe dirigente, ai giornali – ha sottolineato l’oratore – ma la responsabilità è in capo a noi stessi, come persone ancor prima che come cittadini, perché i barbari siamo noi: lo siamo quando ce la prendiamo con i professori per un brutto voto dei nostri figli, invece di punirli perché non hanno fatto il loro dovere. C’è un sovvertimento totale della logica, di cui siamo responsabili. Siamo rincitrulliti nell’educazione dei figli, perché ci siamo convinti che dalla vita possa essere cancellato il dolore. Negli anni ‘50-’70 il sacrificio era una cosa bella; oggi metà Paese è convinto che si abbia il diritto di stare bene. Si cancellano i doveri e si chiede il reddito di cittadinanza. Ai ragazzini non possiamo dire più nulla, abbiamo corrotto anche le favole, e presto non avremo più bambini a cui raccontarle. Eravamo i più prolifici d’Europa; oggi siamo ultimi in classifica. Le giustificazioni che abitualmente si danno della bassa natalità sono scuse: forse nel 1944 si stava meglio e c’era certezza del futuro?».

Non è dunque una questione di soldi. «C’è una fuga dalle responsabilità – ha concluso Giacalone -, un sentimento che crea i numeri che abbiamo visto. La colpa è essenzialmente nostra, che ci comportiamo da consumatori irresponsabili. Gli italiani che competono vincono, ma noi ci occupiamo solo dei protetti e dei mantenuti. Attenzione, però: quelli che producono magari si stufano e se ne vanno dall’Italia».

 




Incontro sulla Giustizia con il presidente del Tribunale di Parma Pio Massa

Venerdì 22 marzo, alle ore 18, il presidente del Tribunale di Parma, dott. Pio Massa, sarà ospite della Banca di Piacenza, che da 12 anni gestisce il Servizio di cassa per il Tribunale di Piacenza. L’incontro sul tema “Organizzare la Giustizia” si terrà nella Sala Panini di Palazzo Galli. Oltre alla relazione del magistrato piacentino, è previsto l’intervento del presidente del Tribunale di Piacenza dott. Stefano Brusati.

La partecipazione è libera. Per ragioni organizzative si prega di voler confermare la presenza (relaz.esterne@bancadipiacenza.it; 0523 542137).




A Palazzo Galli raccontata l’evoluzione del Consorzio di servizi bancari

Il Cse – di cui la Banca di Piacenza è socia –  è il Consorzio di servizi bancari nato nel 1970 come centro meccanografico, prima struttura di servizi informatici per banche. Oggi il Cse offre anche servizi di consulenza organizzativa, funzionale e normativa, aiutando le banche a stare al passo con i tempi – velocissimi – della rivoluzione tecnologica, consentendo agli istituti di credito di concentrarsi sul loro core business. L’attività del Consorzio servizi bancari è stata illustrata dal suo amministratore delegato Vittorio Lombardi nel corso dell’incontro – tema, “La rivoluzione tecnologica e le banche” – che si è tenuto a Palazzo Galli (Sala Panini, con Sala Verdi videocollegata) per iniziativa della Banca di Piacenza.

«Quello con il Cse – ha sottolineato il condirettore generale dell’Istituto di credito di via Mazzini Pietro Coppelli presentando il relatore – è un rapporto che dura da oltre vent’anni. Siamo tra i soci del Consorzio che fanno parte del Consiglio di amministrazione e crediamo in questa struttura, tanto che lo scorso anno abbiamo aumentato la nostra quota di partecipazione. Il Cse ci dà la possibilità di migliorare dal punto di vista dello sviluppo tecnologico e organizzativo, contenendo i costi».

Il dott. Lombardi ha raccontato che cosa fa il Cse partendo dalle origini. Nato nel 1970 come centro servizi elettrocontabili delle banche popolari, fino al 1990 ha lavorato al servizio degli istituti fondatori. Nel ’90 la società si rilancia e dal 2000 scorpora alcune funzioni con lo spin off di Cse consulting e di Cse servizi (nel 2005); nel 2009 l’acquisto di Caricese (che oggi gestisce il servizio post vendita della banche) e nel 2018 l’acquisto di OneWelf, il secondo gestore in Italia di Fondi Pensione. «Investiamo molto – ha sottolineato l’amministratore delegato di Cse – allo scopo di allargare sempre di più la base dei nostri clienti, per ridurre i costi e migliorare l’efficienza dei servizi». Il Consorzio ha oltre 160 clienti, sedi a Bologna, Roma e Milano, 555 dipendenti e volumi operativi di tutto rispetto: il Cse gestisce oltre 8 milioni e mezzo di anagrafiche attive, quasi 5 milioni di conti correnti, 900mila dossier titoli, più di 3 milioni di profili di e-banking. Durante l’incontro è stato proiettato un filmato della nuova sede Cse di San Lazzaro di Savena inaugurata nel settembre scorso, che ospita gli uffici di Caricese, allestiti con una nuova filosofia: non ci sono scrivanie dedicate, i dipendenti si siedono dove trovano posto.

«La tecnologia – ha osservato il dott. Lombardi – acquista sempre più un ruolo centrale nel mondo bancario. Le filiali avranno format diversi, saranno più leggere e automatizzate, più focalizzate su consulenza e servizi e meno sulle transazioni. Il futuro – ha concluso – è nei dati, utilizzati per studiare le esigenze dei clienti e definire offerte e servizi su misura».




Gesù economista non è né socialista né pauperista

“Gesù economista” di Charles Gave è stato il libro – ripubblicato, dopo alcuni anni dall’edizione originale francese, dall’Istituto Bruno Leoni con la traduzione di Nicola Iannello – protagonista dell’incontro che si è tenuto a Palazzo Galli (in Sala Panini, con Sala Verdi videocollegata) come anteprima della terza edizione del Festival della cultura della libertà.

Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto, presentata da Robert Gionelli, ha spiegato come il volume non sia un trattato di religione ma un saggio di economia che si basa sui Vangeli, scritto da un imprenditore ed economista francese non teorico e con una forte fede cattolica.

Perché l’IBL ha deciso di pubblicarlo? «Per dare – ha risposto la dott. Sileoni – una lettura trasversale dei temi economici contenuti nei Vangeli fatta in modo agevole, snella e con un approccio molto umile. Gave riporta frasi di Gesù da cui si ricava ciò che il Signore pensava dell’economia». Che non è esattamente l’interpretazione invalsa che vuole, per esempio, il denaro considerato dai Vangeli lo “sterco del demonio”. E’ dunque questa la dottrina di Gesù, nei secoli considerato il primo socialista, il primo comunista, il primo pauperista? Non per Gave e nemmeno per Serena Sileoni. 

«Nel secolo scorso – ha affermato la studiosa – si è fatto dei Vangeli il vessillo dell’egualitarismo. Ma il messaggio cattolico è un messaggio di libertà quando parla di libero arbitrio che è la libertà del dovere. La vera solidarietà è quella spontanea, fatta perché ci si senta liberi di fare ciò che si deve». A parere di Gave Gesù, con la sua predicazione, mette in risalto il messaggio di libertà e responsabilità individuale. Con le sue parabole, il Signore ha saputo parlare in maniera assai interessante di questioni economiche. «La parabola della vigna – ha esemplificato la dott. Sileoni – ci dimostra che una persona ha diritto di usare i propri soldi come vuole. Al lavoro si dà un valore soggettivo, che è un concetto tipicamente liberale. Come vicina alle idee liberali è la parabola dei talenti, dove l’interesse sul denaro, per tanto tempo condannato, è per Gesù una cosa del tutto normale. Non solo. La parabola ci dà la serena consapevolezza che le diseguaglianze esistono».

«Chi vede l’economia come lotta di classe e la giustizia sociale un modo per attuare il controllo pubblico dell’economia stessa – ha concluso Serena Sileoni – è portatore di un messaggio che parla di tristezza e conflittualità. Il messaggio evangelico è invece di speranza e di gioia: se le risorse sono scarse non c’è necessità di controllare le nascite, ma di progredire per rendere la terra più produttiva».




La mostra cremonese “Il Regime dell’Arte” raccontata a palazzo Galli

«Ricchetti dipingeva nell’ultima stanza dell’attuale sede degli Amici dell’Arte (allora Istituto fascista di cultura, ndr). Io ero l’unico che poteva vederlo all’opera: vivevo lì in quanto figlio del custode della Ricci Oddi e un bel giorno mi trovai a fare da modello per la figura del balilla. Non posavo mai per più di un quarto d’ora, poi mi mandava fuori a giocare. Dopo si riprendeva, ma il pittore non mi ha mai chiesto di restare immobile, potevo muovermi come desideravo. Ricchetti era solito fare la pausa pranzo. Chiudeva la porta della sala, ma lasciava le finestre aperte per far asciugare il colore. Ricordo che un giorno decisi di entrare di nascosto dalla finestra: mi avvicinai al quadro, intinsi il pennello nella tavolozza dei colori e diedi due pennellate vicino al cesto con la frutta. Poi andai da mio padre, il quale capì subito che avevo combinato un guaio. Mi costrinse a confessare tutto a Ricchetti, che non mi sgridò: disse “ma sai che hai ragione, la sola frutta stona” e dove avevo fatto il danno dipinse, lo definì in dialetto, un “bel piston ad vëin”, un bottiglione di vino. Alla fine fu molto generoso: quando vinse il premio al concorso di Cremona (40mila lire, che andò a ritirare in camicia nera presa in prestito, perché non ne possedeva una, ndr) mi diede una lauta mancia, che subito consegnai a mio padre».

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Si è chiuso con questa bella testimonianza di Giovanni Ferrari (il piacentino ritratto da bambino a rappresentare il balilla del quadro di Ricchetti) presente tra il pubblico, l’incontro che si è tenuto a Palazzo Galli (Sala Panini) – nell’ambito dell’autunno culturale della Banca di Piacenza – per la presentazione della mostra “Il Regime dell’Arte” in corso al Museo civico Ala Ponzone di Cremona, che ripercorre la vicenda storica del “Premio Cremona”, il concorso pittorico voluto da Roberto Farinacci nel 1939 (con altre successive edizioni nel 1940 e nel 1941) con l’intento di sostenere l’idea dell’arte come celebrazione dei valori e delle imprese del fascismo.

La prima edizione del concorso fu vinta dal pittore piacentino Luciano Ricchetti con l’opera “In ascolto” (il tema era “Ascoltazione alla radio di un discorso del Duce”), dipinto di grandi dimensioni (per regolamento i quadri partecipanti non potevano essere inferiori a 5 metri quadrati) che raffigurava una famiglia contadina riunita per ascoltare alla radio un discorso di Mussolini. E Giovanni Ferrari posò, all’età di 8 anni, proprio per la parte del quadro raffigurante il balilla, dipinto che – dato il tipo di soggetto – nel 1945 fu tagliato in tanti pezzi, diventati opere singole che vennero in parte ritrovate grazie al lavoro di ricerca dei compianti Ferdinando Arisi e Stefano Fugazza.

Il frammento Il balilla (olio sui tela di 33 cm x30) è stato acquistato nel 2007 dalla Banca di Piacenza (si trova in una sala di rappresentanza al primo piano di Palazzo Galli) ed è stato prestato alla mostra di Cremona (dove sono esposti anche il frammento Madre e figlio di proprietà della Galleria Ricci Oddi e un disegno preparatorio).
Robert Gionelli, che ha moderato l’incontro, ha riferito dei colloqui avuti con il prof. Arisi sul quadro di Ricchetti, dai quali vennero fuori particolari interessanti: nel 1970 lo stesso Arisi fu testimone dell’intervento di ritocco de Il balilla compiuto da Ricchetti (tolse la M dal berretto, la cravatta azzurra e lo firmò); per i soggetti de In ascolto l’artista piacentino si ispirò a parenti e conoscenti: per la figura del capofamiglia posò un amico artigiano, un certo Freschi, mentre erano state modelle la
moglie di Ricchetti, Gemma Francani (la giovane fanciulla in piedi, sulla destra del dipinto) la primogenita Francesca (la piccola italiana) e il nipotino (il bambino tenuto in braccio dalla madre).
Il prof. Rodolfo Bona, curatore (insieme a Vittorio Sgarbi) della mostra “Il Regime dell’Arte” (aperta fino al 24 febbraio 2019; per informazioni: 0372407770 – www.musei.comune.cremona.it), ne ha illustrato le caratteristiche a Palazzo Galli mostrando le immagini di alcune opere esposte e fotografie dell’epoca, precisando che sono stati rintracciati 65 dipinti sui 390 che avevano partecipato alle tre edizioni del Premio Cremona ed auspicando che se ne ritrovino delle altre per arricchire una mostra unica nel suo genere.
L’architetto Massimo Ferrari, presidente della Ricci Oddi, ha sottolineato «l’incredibile» lavoro del prof. Bona nella ricerca delle opere da esporre, quadri che per le loro grandi dimensioni raccontano più storie insieme e ha ricordato le prossime iniziative della Galleria: una mostra su Stefano Bruzzi ed una – il prossimo anno – su Fontanesi con doppia sede, Piacenza e Parma.




Convegno a Palazzo Galli sul patriota Giuseppe Manfredi

L’omaggio al grande patriota piacentino Giuseppe Manfredi a cent’anni dalla morte e un approfondimento sulla fine della Grande Guerra (4 novembre 1918) con la vittoria italiana, di cui purtroppo il Nostro non potè gioire appieno perché già sul letto di morte (mancherà, a 90 anni, due giorni dopo): è quanto avvenuto questa mattina – sabato 17 novembre – per iniziativa del Comitato di Piacenza dell’Istituto per la storia del Risorgimento. Due i momenti della giornata celebrativa. Dapprima nella Basilica di San Francesco si è reso omaggio alla tomba di Giuseppe Manfredi (alla presenza delle autorità e dei soci dell’Istituto) con l’intervento del gen. Eugenio Gentile, vicepresidente del Comitato piacentino dell’Istituto stesso, che ha ripercorso la lunga e intensa vita del patriota, magistrato e statista, sottolineandone l’importante ruolo per la rinascita di Piacenza, con il 1859 come anno in cui la sua azione ebbe la maggiore evidenza. «Credeva negli italiani – ha concluso il gen. Gentile – e non è un caso che sia sepolto nella chiesa dove, per la prima volta, i piacentini espressero il 10 maggio del 1848 la volontà di essere italiani». L’intervento del gen. Gentile era stato preceduto dai saluti del vicesindaco di Piacenza Elena Baio e del sindaco di Cortemaggiore (dove Manfredi era nato) Gabriele Girometta, ringraziati dal presidente del Comitato di Piacenza dell’Istituto per la storia del Risorgimento Corrado Sforza Fogliani. Presenti anche l’on. Tommaso Foti e i discendenti del patriota piacentino, con il capofamiglia Carlo Emanuele Manfredi.
E’ seguito il convegno a Palazzo Galli della Banca di Piacenza (che ha collaborato all’organizzazione dell’evento), introdotto dal presidente Sforza Fogliani che ha nell’occasione voluto ricordare anche un altro Manfredi, Giuseppe Salvatore, «il primo presidente dell’Istituto per la storia del Risorgimento. A lui si deve il fatto che Piacenza sia una delle pochissime città ad avere un Museo del Risorgimento, perché fu lui che raccolse i primi reperti e i primi documenti». Aldo G. Ricci, direttore emerito dell’Archivio Centrale dello Stato, ha illustrato la figura di Giuseppe Manfredi soprattutto nelle sue vesti di senatore e presidente del Senato stesso. «Ha un elemento che lo contraddistingue – ha osservato il dott. Ricci -: è l’unico personaggio, di tutto rispetto e grande patriota, che è stato presente nella storia risorgimentale e dell’Italia unitaria dal 1848 al 1918». Il relatore ha quindi ricordato il suo fondamentale apporto alla Piacenza Primogenita e i diversi ruoli istituzionali che ricoprì, fino all’elezione al Parlamento Subalpino. Poi un passo indietro e la decisione di intraprendere la carriera di magistrato. La sua azione fu apprezzata e venne nominato senatore e in seguito presidente della Camera Alta. In quella veste tenne parecchi discorsi, che il dott. Ricci ha diviso in tre tipologie: quelli legati ad eventi luttuosi, quelli riferiti a vicende belliche e i discorsi istituzionali. «Dall’esame dei suoi interventi – ha concluso Aldo G. Ricci – si impara a conoscere il Manfredi uomo politico, fedele al Regno e legato alle tradizioni, ma aperto alle innovazioni».
Il presidente Sforza Fogliani ha quindi passato al parola agli altri relatori – chiamati a trattare, sotto diversi aspetti, la fine della Grande Guerra nel Piacentino – non prima di aver sottolineato il fattore fondamentale che ci consentì di vincere il conflitto: «La disfatta austriaca fu militare ma anche economica. L’Italia, invece, riuscì a far fronte alle spese di guerra perché la classe dirigente liberale aveva provveduto a risolvere il problema del debito pubblico. La lira a inizio ‘900 faceva aggio sull’oro».
Augusto Bottioni ha trattato dei campi di concentramento di Gossolengo e Rivergaro per i prigionieri di guerra italiani rientrati dagli imperi d’Austria e Germania, prigionieri verso cui si nutriva diffidenza e che vennero lasciati nei campi in condizioni precarie. Poi – grazie anche a campagne di stampa – arrivarono pasti caldi e coperte e la situazione migliorò. Paolo Brega ha invece ricordato la figura del deputato di Castel San Giovanni Nino Mazzoni, socialista riformista con alle spalle un’attività sindacale nel settore agricolo, voce critica sulla guerra e le sue conseguenze e, da giornalista, attento ai problemi delle censura. Paola Castellazzi ha passato in rassegna i titoli dei giornali piacentini (Libertà, Nuovo Giornale e La Trebbia) sulla fine della Grande Guerra, salutata con toni trionfalistici. Fausto Ersilio Fiorentini ha trattato delle ripercussioni della guerra sulla vita della Chiesa piacentina negli ultimi anni del magistero del vescovo Giovanni Maria Pellizzari, utilizzando come fonte il Bollettino ufficiale del Capitolo della Curia, una sorta di Gazzetta ufficiale della Chiesa. Luigi Montanari ha illustrato l’attività piacentina della Lega nazionale proletaria fra mutilati, invalidi, vedove e genitori di Caduti in guerra, mentre il ten. col. Massimo Moreni ha sottolineato il ruolo determinante (attraverso i ponti di barche approntati in condizioni ambientali difficilissime) dei Pontieri nella vittoria finale. In particolare, Moreni ha parlato del 4° Reggimento Genio Pontieri di Piacenza sul Piave: dalla battaglia del Solstizio a quella di Vittorio Veneto. Valeria Poli ha passato in rassegna il programma di opere pubbliche apprestato dal sindaco Enrico Ranza per il dopoguerra, opere che per la maggior parte rimasero solo sulla carta. Della costituzione dello Stabilimento militare di San Lazzaro Alberoni, delle attività di supporto alle unità automobilistiche del Regio Esercito e di quelle di smobilitazione al termine della prima guerra mondiale ha parlato David Vannucci. Un’attività dalla quale è poi derivata la vocazione di Piacenza per la logistica.
Robert Gionelli ha infine presentato gli Atti del convegno 2017 “La terza guerra d’indipendenza e il quartier generale di Piacenza-Fiorenzuola”, pubblicazione che è stata consegnata ai presenti.




I campi per prigionieri di guerra nel Piacentino: una storia nella storia finora mai raccontata

Sull’argomento avevamo fino ad ora studi parziali. Con il testo di David Vannucci la lacuna è colmata. “I campi per prigionieri di guerra nel territorio piacentino durante la seconda guerra mondiale. Rezzanello, Cortemaggiore, Veano, Montalbo” (edizioni Tip.Le.Co) – presentato a Palazzo Galli, Salone dei depositanti, dall’autore in dialogo con Corrado Sforza Fogliani e Manrico Bissi – rimarrà sempre un punto di riferimento preciso, ma soprattutto prezioso. Lo ha sottolineato il presidente del Comitato esecutivo della Banca di Piacenza (l’Istituto ha contribuito alla realizzazione del volume), aggiungendo che «siamo in presenza di un testo rigoroso. L’autore è, del resto, ufficiale del nostro Esercito: il suo scritto non poteva, dunque, che risentirne. Un testo anche – ha proseguito Sforza Fogliani – appassionante e di grande umanità: che ci fa sentire nostri gli stenti, le difficoltà, i disagi che patirono gli internati».

Il presidente Sforza ha posto quindi l’accento su altri aspetti del libro: «I campi per i prigionieri di guerra – ha spiegato – trovarono sede in castelli, edifici monumentali e palazzi storici: di essi l’autore tesse allora la storia, artistica e politica. I prigionieri di guerra, poi, vennero a contatto con le nostre popolazioni, soprattutto rurali: di questi rapporti Vannucci ci fa la descrizione, sempre attenta, talvolta commovente. Ancora. Nel libro di Vannucci è ricostruita pure la fase della liberazione di Piacenza dall’occupazione tedesca – fra il 27 e il 28 aprile del 1945 – in modo succinto, ma completo. Anche i perigliosi momenti dell’8 settembre del ’43 – quando i militari, pure da noi, furono improvvisamente lasciati senza disposizioni – sono ricostruiti con grande accuratezza, sulla base – soprattutto – di notizie d’archivio di natura militare in gran parte inedite e di speciale, grande interesse».

Il maggiore David Vannucci ha illustrato il contenuto del libro: «Una storia fatta di tante storie, non solo ufficiali – ha spiegato -, anche perché di documenti ufficiali ce ne sono pochi: dopo l’Armistizio i campi sono stati occupati dai tedeschi che li hanno saccheggiati. Per fortuna l’Archivio storico dell’Esercito è ancora intatto». L’autore ha sottolineato come quello di Piacenza fosse un territorio adatto ad ospitare campi di prigionia: sia perché importante nodo ferroviario (i prigionieri viaggiavano in treno) sia perché c’erano strutture esistenti, di proprietà di istituti religiosi, adatte allo scopo. Ancora, Piacenza aveva già nella Grande guerra conosciuto le esperienze dei campi di Gossolengo e Cortemaggiore. Con il secondo conflitto mondiale il primo campo ad aprire (1941) fu quello nel castello di Rezzanello, di proprietà delle suore Orsoline (ospitò 150 prigionieri, britannici e sudafricani prima, civili greci poi, con 100 soldati a custodirli). A Cortemaggiore il campo era stato ricavato nel convento dei frati minori (230 i prigionieri, soprattutto jugoslavi, con 110 soldati di guardia). Poi ci fu Veano, nella villa di proprietà dell’Opera Pia Alberoni (250 posti, 110 soldati), che diventò la prigione degli ufficiali inglesi. Infine Montalbo, costituito nel 1942, con ufficiali britannici e dei dominions (150 posti). «La gestione dei campi non era semplice – ha osservato il maggiore Vannucci -. C’erano problemi di lingua, sanitari, igienici, di alimentazione. E si doveva trovare un modo per far passare il tempo ai prigionieri, che avevano in testa una sola idea: quella di fuggire».  Dalla ricerca storica dell’autore sono emersi aspetti molto interessanti: «L’umanità sei soldati italiani che legarono con i prigionieri; la forte centralità nei prigionieri verso gli affetti nella madrepatria; la fuga dopo l’8 settembre e la decisione di combattere insieme ai partigiani; l’accoglienza ricevuta nelle nostre vallate, la complicità con la popolazione che nascose i prigionieri a rischio della propria vita».

Piacenza in quel periodo non fu solamente terra di campi di prigionia ma anche grande città-ospedale, con le strutture del Collegio Morigi e del Collegio Alberoni trasformate in ospedali militari. Sabato è stata organizzata una visita guidata alle ex strutture sanitarie per i prigionieri di guerra, a cura dell’associazione Archistorica di Manrico Bissi, in collaborazione con la Banca. Anche l’architetto Bissi ha sottolineato l’aspetto umano che emerge dalla lettura del libro: «Nel nemico si riuscì ad individuare un avversario, con la sua dignità e umanità».




Il presidente dell’Abi Patuelli lunedì a Palazzo Galli

Il presidente dell’Abi (Associazione bancaria italiana) Antonio Patuelli sarà lunedì 12 novembre a Piacenza per illustrare – Sala Panini di Palazzo Galli, alle ore 18 – il IV volume sulle “Libertà economiche” (edizioni Libro Aperto), curato da Corrado Sforza Fogliani e contenente gli interventi di Luigi Einaudi all’Assemblea Costituente. Il saluto della Banca di Piacenza sarà portato dal presidente del Consiglio di amministrazione Giuseppe Nenna.

La partecipazione è libera. Per motivi organizzativi si invita a preannunciare la propria presenza (relaz.esterne@bancadipiacenza.it – 0523542137).




Don Borea verso il processo di beatificazione

E’ stato necessario spostare l’incontro dalla Sala Panini al Salone dei depositanti di Palazzo Galli, tante sono state le prenotazioni per assistere alla presentazione del libro “Giuseppe Borea, Quando l’amore è più forte dell’odio” dedicato al sacerdote piacentino ucciso a 34 anni da un plotone d’esecuzione della Guardia nazionale repubblicana.

A ricordane la figura sono intervenuti il vescovo mons. Gianni Ambrosio, il presidente del Comitato esecutivo della Banca di Piacenza Corrado Sforza Fogliani, l’autrice del volume (Edizioni Il Duomo) Lucia Romiti, giornalista, redattrice della rivista del Rinnovamento nello Spirito santo e don Davide Maloberti, direttore de Il Nuovo Giornale.

La storia di don Borea – è stato sottolineato – è un intreccio di amore, fede e servizio e si sta lavorando, è stato annunciato, per aprire il processo di beatificazione.

Don Giuseppe era nato a Piacenza il 4 luglio del 1910. Diventato sacerdote, fu nominato parroco di Obolo, frazione di Gropparello, nel 1937, quando aveva 27 anni. Durante la Resistenza scelse di essere cappellano partigiano della trentottesima Brigata della Divisione Valdarda, guidata dal comandante Giuseppe Prati, e si distinse per la sua umanità e il suo coraggio.

Sempre pronto a portare la parola della misericordia sul fronte della guerra civile, venne arrestato nella sua canonica da tre uomini della Guardia nazionale della Repubblica di Salò e sottoposto a un processo sommario (la sentenza di condanna a morte era già scritta da tempo).

Morì sotto i colpi del plotone di esecuzione il 9 febbraio del 1945, appena prima del 25 aprile, in odio alla fede, come il beato Rivi di Reggio Emilia. Don Borea – è stato ricordato – fu un uomo coraggioso e allo stesso tempo molto sensibile, che non si rassegnò al male del tempo storico in cui si è trovato a vivere. Morendo strinse al petto il crocifisso e chiese perdono per i suoi carnefici.