Cinquant’anni fa non era ancora stata coniata la definizione di “cervelli in fuga” eppure erano tanti i professionisti italiani che decidevano di cogliere opportunità di lavoro all’estero. Imprese pubbliche come l’Eni, l’Agip o private come la Lodigiani o l’Impregilo erano impegnate su cantieri importanti ed inviavano ingegneri e tecnici negli angoli più remoti del mondo. A spingerli verso questa scelta erano le possibilità di carriera, gli ottimi guadagni, la voglia di avventura e conoscenza.
L’estremismo islamico, l’Isis erano del tutto sconosciuti e paesi ora infrequentabili erano all’epoca tanto affascinanti quanto sicuri.
Così anche svariati piacentini si trasferirono in continenti lontani, quasi sempre accompagnati dalle famiglie. Fra loro c’era anche Claudia Cassinari. Al seguito del padre, geologo, dalla seconda elementare della scuola Giordani, a sette anni, si trovò proiettata in Zambia, nel cuore dell’Africa. L’inizio di una vita nomade che in seguito la portò, in prima media (dopo una parentesi di un mese al Faustini) dall’altra parte del mondo ossia in Bolivia, dove frequentò una scuola americana.
«L’Italia per me e mia sorella era diventato solo un luogo dove trascorrere le vacanze estive» ci racconta davanti ad un fumante espresso, durante una delle periodiche visite piacentine ai genitori.
Alle porte della terza liceo arrivò il terzo spostamento di questo Risiko abitativo: Pointe Noire, nel Congo francese. Nuovo paese, nuova scuola, nuova lingua di insegnamento, il francese.
«Per me fu tragico – ricorda Claudia Cassinari -perché venivo da una scuola americana e dovetti reinserirmi in un istituto con una impostazione latina».
Quella del Congo sarà anche l’ultima tappa della loro vita all’estero per uno di quei curiosi casi della vita: la puntura di un insetto. La mamma di Claudia venne pizzicata, in spiaggia, da un ragno velenoso, riportando una paresi temporanea ad una gamba. Nulla di realmente grave ma tanto bastò al capofamiglia per decidere che era giunta l’ora di dire basta e chiudere definitivamente questa lunga parentesi.
«Non dico che siamo scappati ma quasi. Mio padre … è come se si fosse fatto prendere dal panico. Abbiamo aspettato la fine dell’anno scolastico e poi siamo rientrati alla base, a Piacenza. Papà decise di mettere una pietra sopra all’esperienza estera, il che è stato un peccato …».
Claudia però in Africa stava frequentando una scuola per l’ottenimento del Bac (il baccalaureato) e quindi si vide costretta a terminare il quarto (e ultimo anno) a Milano, in un istituto francese, vivendo, dal lunedì al venerdì, in convitto dalle suore e rientrando in via Vitali nel fine settimana.
«E’ stato un orrore perché quando si è all’estero si vive sempre un’esperienza molto legata alla famiglia; vivi tutto quanto, le nuove esperienze, come gruppo, come unione. Mi sono trovata da sola … a Milano … dalle suore».
L’università fu probabilmente il suo unico scampolo di “normalità”: economia e commercio a Parma, amici a Piacenza.
«Mi resta sono il rammarico di non aver frequentato la Bocconi ma avevo avuto una esperienza così traumatica in quell’anno di vita al convitto che mi dissi … Milano mai più».
Invece con la preparazione e la laurea ottenuta a Parma trovò subito lavoro in una società di leasing … proprio nel capoluogo lombardo. Rimarrà a lavorare cinque anni per la stessa compagnia … ma il tarlo del nomadismo la continuava a rodere, pian piano. Così dopo un corso di formazione organizzato dalla sua azienda a Bruxelles decise che Milano le stava stretta e si mise a cercare una nuova opportunità lì, nel cuore dell’Europa.
«La città mi era piaciuta. Sentivo la necessità di crescere come persona. Ero estremamente attaccata ai miei, avendo vissuto sempre all’estero. Mi son detta vediamo, facciamo un’esperienza breve. Mi sono messa a cercare lavoro e l’ho trovato».
Claudia Cassinari venne assunta dalla SWIFT, l’azienda che si occupa, a livello mondiale, del trasferimento sicuro di fondi da una banca all’altra. Il codice di comunicazione SWIFT, a fine anni settanta, prese il posto della tecnologia telex, fin lì usata per le comunicazioni fra gli istituti di credito.
Ventisei anni dopo lavora per lo stesso gruppo. Il che non significa che nel frattempo se ne sia rimasta ferma nella capitale del Belgio. Nei primi cinque anni ha continuato a viaggiare, per conto dell’azienda, in Europa, da Parigi alla Svizzera, dall’Italia alla Spagna. Poi ha conosciuto suo marito, David, inglese. Con l’arrivo dei figli ha dovuto, giocoforza, diventare stanziale, anche se, in verità, per due anni tutta la famiglia si è spostata a vivere a New York, dove il marito David si era trasferito per motivi di lavoro .
Claudia Cassinari, oggi, è una sorta di pendolare e per almeno tre giorni alla settimana vive a Londra dove segue da vicino il suo più importante cliente, la Banca d’Inghilterra. A casa, in un quartiere residenziale appena fuori Bruxelles, la attende il (paziente) marito. Sempre che lei non torni a Piacenza a trovare la famiglia, come nei giorni scorsi quando la abbiamo incontrata.
Doveva essere una intervista sulla sua grande passione la musica ma la vita di Claudia meritava di essere brevemente tratteggiata perché, diciamocelo, non capita tutti i giorni di incontrare una piacentina giramondo come lei. Assolto il dovere di cronaca non resta che dedicarsi al canto.
Da dove le viene questa vocazione canora?
Una volta all’estero come ha fatto?
«Mi ricordo in Bolivia; in casa avevamo un pianoforte. L’ho praticamente distrutto a furia di suonarlo. Ho preso anche qualche lezione. Alla base però c’era il fatto che i miei genitori non volevano che io cantassi. Quindi è sempre stata una passione come dire … molto collaterale».
Quando è cambiato qualcosa?
«In Belgio, nella mia azienda, abbiamo deciso di fondare una band. Io ovviamente mi sono inserita e … da lì in poi ho sempre cantato».
«No, non esiste più. E’ stata una parentesi durata per un po’. Facevamo cover pop, rock. La prima canzone è stata Hotel California. Era il 1999».
Dopo di che, come ha continuato?
«Ho fondato varie band, facendo sempre cover. Poi ho cominciato ad andare in studio, a registrare. Il tecnico del suono di questo studio un giorno mi ha detto “Claudia devi appropriarti di uno stile tuo”. Fino a quel momento scopiazzavo un po’ lo stile dei cantanti che interpretavo. Mi ha talmente rotto le scatole che …».
Immaginiamo che le abbia fatto scattare una molla? Quale?
«Quando ero più giovane scrivevo poesie. Era il modo che avevo per esprimere i miei sentimenti. Ho pensato che non doveva essere così diverso scrivere canzoni. Mi sono cimentata. Un giorno gli ho proposto una canzone che si intitolava “You dont bring me flowers».
Gli è piaciuta?
E’ stata la sua prima esperienza competitiva?
«Avevo già partecipato nel 2016 allo stesso festival con una canzone che si chiama “Dove sei”. In questo caso la base musicale era davvero semplice, solo la chitarra di Luca. Fra il 2016 e il 2017 ho partecipato a tanti festival non competitivi. In Belgio la comunità italiana è davvero grande e ci sono svariate manifestazioni dedicate alla cultura, al cibo, alla musica italiana. Ci sono anche radio che trasmettono solo in italiano. In particolare c’è una radio che si chiama Hitalia. Mi convocano spesso per presentare la musica italiana, anche musica, anni ‘70».
La sua musica invece come è, cosa racconta?
«Racconto esperienze, il mio vissuto. Trovo difficile elevarmi e scrivere di cose astratte che non ho provato personalmente, che non mi rappresentano. Molti trovano che le mie canzoni siano un po’ tristi. Probabilmente perché mi è difficile scrivere quando sono felice. La felicità la vivo. Invece quando sono triste, la tristezza mi entra nell’animo, non riesco a lasciarla fuori. Prima scrivevo poesie, ora canzoni. E’ il mio modo per esteriorizzare questi momenti, per comunicarli alle altre persone».
In che lingue scrive, fra le tante che padroneggia?
A proposito di marito, cosa ne pensano in famiglia di questa sua passione?
«Mia figlia è molto fiera. Non lo ammetterà mai ma di nascosto fa il download delle mie canzoni e poi le fa sentire alle sue amiche dicendo “questa è la mia mamma”. Morire che me lo venga a dire! Mio figlio è venuto con mio marito al Festival di New York. Aveva finito gli esami universitari proprio due giorni prima. Quando ero sul palco e cantavo la mia canzone “Vola” ha catturato una clip e l’ha pubblicata sui social e ha scritto “quando tua mamma è famosa”.
Nessun figlio ha seguito le sue orme?
«No. Mia figlia canta molto bene però non le interessa. Peccato, …. mi piacerebbe facesse la mia corista quando registro ma non riesco a convincerla. Ad Alessandro proprio non piace cantare. Sono io che, in realtà, ho seguito le orme di mia mamma. Lei cantava in gruppi scolastici ed ha una bellissima voce.».
Restando in tema figli, i suoi di che nazionalità si sentono?
«Diciamo che al momento, dopo aver frequentato lì l’università, hanno detto basta a Londra. Mia figlia ha detto “basta” ed ha deciso di trovarsi un posto di lavoro in Belgio. Poi chissà magari cambierà idea. Mio figlio anche lui, appena ha finito è scappato via. Ha detto “no, no la mentalità britannica non fa per me”. E dire che il papà è inglese».
Si vede che la parte italiana prevale.
«Più che italiana direi latina. Italiani … italiani, forse no. Si sentono più europei. Visto che gli inglesi hanno sentimenti poco europei … loro, al momento, è come se prendessero un po’ le distanze dalla Gran Bretagna».
Tornando alla musica un disco non lo ha mai prodotto?
«Non ancora. Però mia madre mi ha appena chiesto di farle un CD. Ci ragionavo ed alle fine ne ho scelto diciassette. Quindi un disco potrei anche pubblicarlo. Secondo me sono belle. Che poi siano commerciali o meno è un altro discorso».
Anche perché il successo non è la priorità della sua vita, immaginiamo.
«La priorità no. Però … capitasse … sarei ipocrita se dicessi che non mi piacerebbe. Ora come ora mi basterebbe avere qualche canzone pubblicata su I-tunes. Comunque ho partecipato all’edizione belga di The Voice, nel 2016. Dopo “duemila” audizioni sono arrivata in televisione, alle “blind edition”. Purtroppo nessuno dei giudici si è girato. Avevo scelto una canzone molto, molto difficile con un beat sincopato … e ho perso un beat … dannazione! Mea culpa».
Un’occasione sprecata.
Carlandrea Triscornia