Nel dibattito sul commercio, innescato nei giorni scorsi dal presidente di Confesrcenti, intrviene anche il consigliere comunale di Forza Italia Michele Giardino, convinto che, sui centri commerciali, il mercato debba continuare a regolarsi da sé. Qui di seguito il suo intervento.
« Lo scheletro della Madonnina, dopo quasi vent’anni, verrà abbattuto. Finalmente recupereremo e riqualificheremo quella parte degradata di città. Ma non tutti esultano. Essendo la sua demolizione propedeutica all’insediamento di un doppio store di cancelleria, giocattoli e articoli da regalo, rimonta la protesta di chi ritiene che la città sia invasa dai colossi del commercio e che ciò comporti un danno letale per i negozi di vicinato e soprattutto del centro storico. “Piacenza, coi suoi centomila abitanti, non può sopportare nuovi centri commerciali”, è l’argomento ricorrente.
Le città nascono storicamente per soddisfare la principale esigenza dell’individuo: poter trovare ciò che occorre a sé e poter cedere ciò che è utile agli altri. In poche parole, potersi scambiare più facilmente le merci. Questa attitudine le città non l’hanno perduta. Sono soltanto cambiate, a più riprese, le modalità con cui si vende e si compra. Il commercio va considerato per quello che è: una rete decisiva per lo sviluppo dei settori produttivi. Le nostre aziende, per crescere, hanno bisogno di una distribuzione efficiente e capillare. Interesse a cui fa pendant l’esigenza degli individui di combinare tempi e modi di acquisto in ragione delle proprie necessità.
Il bestiame non viene più venduto in piazza la domenica mattina, le pelliccerie sono irrimediabilmente scomparse a causa della montante filosofia animalista, il minimarket è diventato supermercato prima e ipermercato poi, mentre internet ha introdotto le vendite online, oggi perfezionabili con acquisti fatti addirittura dal proprio cellulare, indipendentemente dal posto in cui ci si trova. Il commercio è tutt’altro che morto: è vivissimo. Continua soltanto a mutare le sue forme. È l’attualità, la modernità a imporre un nuovo stato di cose.
Le rendite di posizione di cui i negozi dei centri storici hanno beneficiato fino a un paio di decenni fa, non sono più garantite. I Comuni non possono (né devono, a mio avviso) farsi portatori di forme di protezionismo fuori dal tempo. E se i mercati economici possono oggi condizionare addirittura la vita di un governo nazionale, non si comprende perché non debbano poter certificare ciò per cui esistono: sarà il mercato a stabilire se in un territorio – la città, nel nostro caso – un determinato settore merceologico sia ricettivo o saturo.
Stiamo attraversando una fase di grandi e profondi cambiamenti nella quale si tratta di spendersi dal lato delle soluzioni, piuttosto che indulgere alla nostalgia di un tempo passato. Inutile pensare di salvare un “piccolo mondo antico” che non ha futuro. Occorre elaborare nuovi schemi di concorrenza, nuovi sistemi di competizione.
In questa inedita dimensione, il Comune deve impegnarsi a tenere insieme il tutto, il moderno e l’antico, l’innovazione e la tradizione, il centro commerciale e il negozio di vicinato. Non può negare una delle due componenti. All’imprenditore va garantita la libertà di investire e di rischiare. Al piccolo commerciante va data una mano affinché possa continuare a svolgere la sua attività.
Più che puntare su normative vincolistiche, le amministrazioni devono accompagnare l’azione dei commercianti – già insediati o di nuovo avviamento – per consentire loro di conservare – o di conquistare – un appeal commerciale. Traguardo non impossibile da tagliare, dal momento che il consumatore moderno è e si conserverà “multicanale”: preferirà il centro commerciale per un’esigenza di comodità (vicinanza, facilità di parcheggio, orari elastici); l’online per un’opportunità di risparmio; il negozio con vetrina per un desiderio di qualità e di personalizzazione del servizio.
In Emilia Romagna una vecchia legge tutt’oggi vigente (n. 41 del 1997), ha cercato di valorizzare il commercio nei centri storici con la retorica dei “centri commerciali naturali” e le “cabine di regia” tra Comuni, camere di commercio e associazioni di negozianti; ma, visti gli esiti impercettibili prodotti in questi vent’anni, almeno nella città di Piacenza, direi senza successo.
Nella vicina Lombardia, la Giunta regionale, con una delibera del 2008 (n. 8/7730), ha avviato i “Distretti del commercio”. Si tratta di una idea di valorizzazione urbanistica e commerciale, insieme; a sostegno, in primo luogo, dell’attrattività di zone della città da riscoprire e da vivere nell’arco della giornata, e di conseguenza, della proposta commerciale al dettaglio che viene esercitata in quelle zone. Processo facilitato dal mai sopito interesse del cliente per la pregevolezza delle merci, la varietà dell’offerta commerciale e l’autenticità dei rapporti umani, oltre che dal bisogno di un contesto che assicuri piacevolezza, esclusività e bellezza – in una parola, emozione – più facili da ritrovare in un luogo urbano adeguatamente valorizzato, che in un contenitore di consumo artificiale.
I distretti sono, intanto, delle aree geografiche esattamente delimitate, con un elenco preciso di vie e di piazze. Ma sono anche tavoli di lavoro che, oltre a Comuni, camere di commercio e associazioni di categoria, vedono coinvolti – in qualità di partner – tutti quei soggetti, pubblici e privati, interessati a realizzare gli obiettivi del distretto: altre associazioni imprenditoriali e di categoria, singole imprese, comitati di residenti, enti pubblici, volontariato e no profit, proprietari immobiliari, operatori culturali, ecc. Insomma, tutta la pluralità di soggetti presenti sull’area, coinvolta non solo nella programmazione, ma soprattutto nella fattiva realizzazione del progetto. Progetto il cui scopo è di rendere seducente il distretto, per supportare – con proposte urbanistiche, culturali, ludiche e ricreative dalla forte carica attrattiva – le iniziative (a loro volta innovative) dei singoli commercianti.
In quest’ottica, non si pongono limiti all’inventiva, alla creatività, alla ricerca. I mestieri contenuti nei nomi di molte vie delle nostre città – un esempio per tutti, via Calzolai – confermano che i nostri avi possono ancora insegnarci qualcosa in tema di commercio. La specializzazione merceologica delle zone o delle strade può essere già un’idea: introdurrebbe elementi di concorrenza e di spinta al miglioramento del servizio, creerebbe una sorta di attrattiva turistica, permetterebbe di individuare orari di apertura ad hoc, faciliterebbe la creazione di imprese focalizzate su singole nicchie. Soprattutto, realizzerebbe le condizioni per un facile avviamento di attività, anche da parte di giovani alla prima prova: inseriti in un distretto specializzato, i nuovi negozi avrebbero immediatamente accesso al proprio mercato di riferimento e si metterebbero alla prova senza quel lungo purgatorio che quasi sempre finisce per prosciugare le risorse investite.
Creare percorsi di bellezza urbana. La Banca di Piacenza ha dato prova della potenzialità di questo genere turistico-culturale, organizzando visite (sempre gettonatissime) alle chiese e ai palazzi storici della città, in occasione della bellissima Salita al Pordenone. Abbiamo idea di quanti splendidi giardini si “nascondono” dietro i portoni del centro storico? Persuadere i relativi proprietari ad aprire quei portoni e a far visitare le loro incantevoli oasi può essere un’altra idea. Il centro storico è come un forziere in fondo al mare: va recuperato dal relitto in cui si trova e aperto. Ne gioverà il commercio, il centro stesso, la città tutta.
Occorreranno anche nuovi e capaci parcheggi, e l’ex Laboratorio Pontieri andrà necessariamente arruolato alla causa».