La linea che divide le correnti di pensiero emerse è, in sostanza, questa: c’è chi pensa che ci si debba sempre, e comunque, adeguare ai dettami (Benedetto Croce, direbbe: ai dettati) dell’Europa, e chi ritiene invece che alla stessa si debba proporre una nostra, autonoma linea. Ma non è chiaro, solo, che vi sono due precisi ambiti di pensiero con un’altrettanto precisa linea di demarcazione. E’ chiaro anche ciò che divide queste due linee, frutto diretto della crisi che – perlomeno in Italia – persiste.
Gli uni, ritengono, invero, che più di quanto si è fatto, non si possa fare, perché le leggi dell’economia sono leggi naturali, dalle quali scaturiscono conseguenze ed antidoti altrettanto naturali: è la linea che dà sostanziale fiducia all’Europa e alle sue ricette di austerità. Gli altri, al contrario, ritengono che i programmi seguiti dall’Italia finora siano frutto del pensiero unico nazionale ed internazionale, non siano affatto l’unica soluzione e l’unica prospettiva, debbano anzi essere radicalmente mutati, che – soprattutto – non ci si possa per niente accontentare della bassa ripresa (conchè in realtà ci sia, la gran parte degli italiani non se ne sono davvero accorti: i prezzi delle loro case – una constatazione che tocca decine e decine di milioni di persone – continuano ad abbassarsi), ma che alla bassa ripresa si debba anzi contrapporre una linea di crescita decisa.
Lo ha spiegato il ministro dell’Economia Tria, con una chiarezza che finora era mancata da parte di chi la pensa come lui, eccezion fatta per il ministro Savona, che da tempo anch’egli esprime una netta apertura sull’obiettivo (e la necessità) di agire sugli investimenti, in particolare nel settore immobiliare, da sempre – lo diceva già Nadau, alla fine dell’’800 – muove decine di settori produttivi.
Tria, alla Giornata, ha lanciato anche uno slogan, efficace: «Investire nell’investimento», tenendo presente che «stabilità finanziaria e stabilità sociale sono due facce della stessa medaglia» (anche per questo ha difeso il reddito di cittadinanza) e, ancora, che il nemico da abbattere è l’incertezza, generata dalla ritenuta possibilità – ha detto il ministro – che eventi globali possano condizionare i nostri bilanci e con essi il nostro futuro. Più chiaramente ancora: le riduzioni del risparmio (dal 19 di qualche anno fa all’odierno 8 per cento del PIL) e degli investimenti, sono la trappola da rifuggire. Mezzo al fine, una politica economica espansiva (anzicchè di austerità) basata sull’investimento pubblico e privato e sul rafforzamento della coesione sociale.
Il problema vero, comune ad entrambe le linee, rimane comunque quello di stabilire se l’una o l’altra linea, o entrambe, siano compatibili con l’attuale fiscalità. “Ridurre la Bestia (della spesa pubblica)” è lo slogan che ha vinto negli Stati Uniti, e il mezzo con il quale si è dato in quel Paese una spinta decisiva, anche in anni passati, alla rinascita. Gli italiani che intraprendono, e che sono la spina dorsale dell’economia italiana, la pensano così. Ma finora hanno vinto i privilegiati, coloro che della spesa pubblica, specie indiretta, vivono. Vedremo se si saprà dare segnali non di accondiscendenza, o addirittura di aumento della stessa, ma di deciso taglio dei mille rivoli (in gran parte parassitari e/o clientelari) che di continuo l’aumentano, perlomeno negli ultimi anni (a dispetto, anche, dell’aumento del gettito fiscale e a clamorosa, pubblica, reiterata smentita del faceto motto «paghiamo tutti per pagare meno»: non si è mai visto un politico che, avendo soldi a disposizione, rinunci ad utilizzarli).
Ma in un quotidiano come questo, privilegiata lettura di banchieri e bancari, non si può chiudere queste considerazione senza parlare delle banche in sé, anche perché giustamente all’Angelicum anche di questo si è parlato.
Il ministro Tria ha con parole chiare sottolineato, “con riferimento al settore bancario e al possibile impatto della dinamica dello spread”, che il settore “sta progressivamente acquistando in solidarietà”: con questo autorevolmente confermando che soci e depositanti delle banche già solide (e quindi con un alto indice di patrimonializzazione, come si constata nella media di questo indice che fanno registrare le banche di territorio) non hanno proprio nulla da temere dallo spread (un indicatore, comunque, creato dall’alta finanza – che lo può anche governare a piacimento, come si è visto anni fa – e che non ha alcunché a che vedere con l’economia reale e con i reali bilanci delle banche). Perché, allora, il suo andamento impatta su questi ultimi (sia pure ben meno di quanto i giornali italiani fanno credere)? Deriva il tutto – è ora di dirlo, e di ripeterlo, a chiare lettere – da una regoletta europea creata anni fa per le grandi banche (in genere, le meno capitalizzate) ed estesa solo nel 2016 a tutte le banche indistintamente. Ciò che spiega perché mai lo spread non impattasse sui loro bilanci (non, in ogni caso, sulle loro reali condizioni) quando lo spread era giunto ad essere a più di cinquecento punti ed impatti oggi (quando gira intorno ai trecento). In sostanza nei loro bilanci ufficiali, le banche devono difendersi dall’Europa. Che è come dire che occorre evitare che ci facciamo del male – noi che siamo in questa Europa – da soli.
Corrado Sforza Fogliani – presidente Assopopolari