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    Lo psicologo Giulio Costa: “non bisogna lasciarsi infettare dal panico ma reagire responsabilmente”

    Quella del SARS-CoV-2 è senza dubbio la prima epidemia vissuta minuto per minuto da una parte della popolazione mondiale. Cifre aggiornate con cadenza oraria, mappe con incidenza dei contagi ed un battage mediatico decisamente pressante ed a tratti alienante. Se per la Spagnola c’erano soltanto titoli di giornali nel mezzo di una guerra sanguinosa e la SARS non aveva trovato un rimbalzo mediatico così forte in un’epoca dove i social network erano ancora agli albori, la SARS-CoV-2 ha contagiato non solo circa 90mila persone nel mondo ma la nostra quotidianità. Virtuale ma soprattutto reale.

    Il nuovo Coronavirus ci ha proiettati, nel giro di pochi giorni, in una realtà nuova che nostro malgrado siamo costretti a sopportare. Da vivere ogni giorno, a tratti inconsapevolmente, a tratti con la speranza che potremo ripartire e ritrovare il nostro “quotidiano”. L’ebola, potenzialmente molto letale, ci è sempre sembrata sempre lontana nonostante le decine di migliaia di morti in Africa. Ma ritrovarsi un’infezione “sotto casa” è quasi un inedito, una prova alla quale la nostra mente troverà un vaccino.

    Ne abbiamo parlato con il dottor Giulio Costa, psicologo e psicoterapeuta Coordinatore del servizio di psico-oncologia del Dipartimento oncologico e cure palliative dell’ASST di Lodi.

    «Ciò a cui siamo chiamati in questo momento non è una prova di sopravvivenza, ma l’opportunità di dare un esempio di civiltà – spiega il dottor Costa – Abbiamo scoperto che esiste una forma di contagio che le distanze, i confini, i disinfettanti e le mascherine non sono in grado di contrastare: è la paura che si trasforma in angoscia e che trasmessa di persona in persona si può trasformare in panico e psicosi collettiva. La paura è un’emozione primaria, antica, comprensibile e molto utile per difenderci e metterci in sicurezza da ciò che temiamo, ma conosciamo, a differenza dell’angoscia che subentra nel momento in cui ci confrontiamo con qualcosa di sconosciuto e incontrollabile».

    Nei primi giorni dell’emergenza le cronache si sono popolate di racconti che sembravano destinati soltanto a film catastrofistici: scaffali dei supermercati depredati, corse all’Amuchina e un panico piuttosto generalizzato. Un panico che si è diffuso con la stessa rapidità di un incendio. Ma che può essere confinato.

    «Non lasciarsi infettare dal panico, non vuol dire negare la complessa situazione sanitaria e sociale che stiamo attraversando, ma significa cercare di trasformare una massa angosciata ed irrazionale in una collettività capace di reagire ad una minaccia in maniera responsabile, civile e soprattutto solidale. Questo implica uno sforzo in due direzioni: fiducia nei confronti di chi si prende cura di noi (ricercatori, medici e personale sanitario in primis) e interesse non solo verso la nostra sopravvivenza individuale (vedi i saccheggi nelle farmacie e supermercati), ma nei confronti dell’Altro, delle nostre comunità dentro e fuori le “zone rosse”. Non possiamo permettere che un virus, anziché colpire la nostra salute, intacchi la nostra identità; non possiamo permettere che le persone che abitano all’interno della “zona rossa” vivano questa esperienza con senso di colpa rischiando di portarsi per sempre un marchio sulla pelle e provare vergogna ogni volta che comunicheranno le proprie origini a qualcuno. Si tratta invece di un sacrificio sociale a cui dobbiamo essere grati».

    Arriviamo infine ad uno dei nodi centrali che aveva fatto da incipit al pezzo: la pandemia di informazioni, statistiche e numeri. Quell’infodemia che può farci sentire tutti malati ma che nasconde anche gesti che provano a ravvivare le relazioni sociali. Che forse non si sono mai davvero fermate.

    «Tenere monitorati in maniera ossessiva i numeri della diffusione, la provenienza e l’età dei contagiati così come i decessi per il Coronavirus, non sono altro che una modalità difensiva e nevrotica per sentirci “sani” nel corpo e “vittoriosi” sul virus, ma non persone vive da un punto di vista emotivo, psicologico e sociale. Come diceva Hannah Arendt –filosofa sopravvissuta alle persecuzioni naziste subite per le sue origini ebraiche– “gli esseri umani sono nati per ricominciare” ed è straordinario assistere come tra titoli e comunicati dai toni spesso allarmistici, si stiano propagando altrettanto velocemente storie di vitalità relazionale e sociale soprattutto tra coloro che vivono nei comuni del Basso Lodigiano maggiormente interessati da questa epidemia – prosegue Costa – Mi riferisco per esempio alla professoressa che ha riunito in video-chat diversi studenti per dare ripetizioni e metterli in contatto tra loro, al ristoratore che fa il pane in casa e lo condivide con i vicini o lo consegna al domicilio di chi è più fragile, agli istruttori di fitness che forniscono esercizi e tutorial online o che si ritrovano in piccoli gruppi per camminare in campagna, al rider che dona uno stock di mascherine ai volontari della Croce Rossa, o il gruppo di volontari che stampa volantini con le informazioni e i numeri utili da recapitare a chi è più a rischio: magari proprio a quelle persone spesso etichettate come “anziani con patologie pregresse” e che proprio per queste ragioni meritano ancora più cura ed attenzione».

    Per Costa in questa situazione nuova è la comunicazione a giocare un ruolo fondamentale. Non per farsi tramite di sventura e catastrofismi ma, anzi, per trasformare le nostre paure in consapevolezza e pensiero cosciente.

    «La comunicazione in questo momento ha un ruolo cruciale: mi riferisco non solo a cosa si comunica, ma soprattutto al come si comunica – conclude Costa – Una comunicazione che non sia ostaggio del sensazionalismo può essere una risorsa importantissima nel sostenere alcuni nostri processi psichici virtuosi e fondamentali in questo momento: aiutare le nostre paure a non trasformarsi nell’angoscia di cui dicevamo, ma in consapevolezza e pensiero cosciente; allora sì che lentamente, giorno dopo giorno, riusciremo ad adattarci imponendo la nostra identità su ciò che è cambiato attorno a noi. Siamo fatti per ripartire».

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