Varcare la porta di ingresso della scuola Sant’Orsola di Piacenza ricorda, in qualche modo, l’entrare nell’armadio magico di Cronache di Narnia.
Come nel romanzo di C. S. Lewis e nella successiva trasposizione cinematografica si ha l’impressione di capitare in un mondo parallelo dove bambini italiani, piacentini, delle elementari preparano lo spettacolo di Natale cantando e recitando in inglese ed in tedesco. Lo fanno con apparente naturalezza eppure la lingua di Goethe hanno iniziato a studiarla all’inizio di quest’anno scolastico, fra settembre ed ottobre.
A differenza del film della Walt Disney non vi è nulla di magico: è la semplice applicazione di metodi didattici più moderni rispetto a quelli a cui la scuola tradizionale ci ha abituato.
Essendo l’istituto di via della Ferma una privata paritaria, pur rispettando i programmi ministeriali, ha la possibilità di sperimentare metodologie di insegnamento che – a quanto pare – funzionano egregiamente.
L’insegnante madrelingua di tedesco (Dorothee Wilms) avvicina i bambini ad una lingua apparentemente ostica, fatta da parole composte e declinazioni, attraverso il canto, la danza, il gioco. Come spugne i piccoli immagazzinano suoni, parole, significati esattamente come fanno i loro coetanei in Germania quando imparano la lingua dalla madre. Il tedesco è in realtà una lingua straniera aggiuntiva poiché quella principale è l’inglese che è potenziato rispetto ad una normale scuola statale.
Oltre ad insegnare l’idioma shakespeariano come materia a sé stante lo stesso diventa anche lingua con cui veicolare alcune materie, esattamente come viene fatto ad esempio anche in molte classi “Clil” del Liceo Gioa, che sorge proprio li davanti, o del Respighi. Visto che il modello si sta dimostrando assolutamente valido si è pensato di utilizzarlo anche per i più piccoli.
La Sant’Orsola ha aperto i battenti solo all’inizio di questo anno scolastico raccogliendo l’eredità della scuola elementare delle Orsoline. Storicamente questo ordine religioso si è sempre dedicato all’insegnamento ma la crisi delle vocazioni ha progressivamente assottigliato le file delle suore di Maria Immacolata, insediatesi a Piacenza, per volere della duchessa Margherita de’ Medici, vedova di Odoardo I Farnese. Attraverso quella scuola aperta il 17 febbraio 1649 sono passate generazioni di concittadine (un tempo era solo scuola femminile).
La mancanza di suore insegnanti, l’elevata età media di quelle ancora presenti in via Roma, l’impegno della direttrice in un diverso incarico, hanno portato alla chiusura delle elementari, mentre al momento sopravvivono ancora le medie.
I genitori dei bambini che erano iscritti alla scuola elementare delle Orsoline (circa una settantina) hanno deciso di rimboccarsi le maniche e di trovare un’alternativa. Hanno costituito una cooperativa (senza scopo di lucro) e si sono messi alla ricerca di una sede e di un valido corpo docente. Operazione per nulla banale ed infatti a lungo si sono intavolate trattative con altri ordini religiosi piacentini che avevano a disposizione ex conventi, ideali per lo scopo.
Quando tutto sembrava essersi arenato è arrivato il sostegno della Banca di Piacenza, proprietaria di alcuni locali al pian terreno del nuovo edificio sorto sulle ceneri dell’ex palazzo Enel, davanti al Farnese. In pochi mesi sono stati suddivisi gli spazi e sono state allestite le aule, la mensa, le cucine e la palestra.
E’ stata anche reclutata come coordinatrice didattica un’insegnate di lungo corso, la professoressa Donatella Vignola che è così tornata a lavorare a pochi metri di distanza da quel Liceo classico, il Gioa, dove operato per parecchi anni, sedendo sulla cattedra di latino e greco (è anche Presidente degli Amici del Gioia).
E’ proprio lei ad accoglierci e di nuovo, come fossimo dotati anche noi di un armadio magico, ci sembra di compiere un viaggio nel tempo. Non solo per le trascorse frequentazioni scolastiche fra intervistata ed intervistatore (che emergono pian piano dallo scrigno della memoria dove erano custodite) ma anche perché la neo-preside per raccontare le differenze generazionali fra i bambini di oggi ed i loro papà parte da oltre 40 anni fa, dai suoi esordi come insegnante presso la scuola media di Farini d’Olmo.
«Non c’erano alberghi allora e quindi ci mettevamo d’accordo fra colleghi. Organizzavamo una macchina ed insieme viaggiavamo ogni giorno da Piacenza all’Alta Val Nure. Dovevamo presentarci puntuali prima delle otto, con il preside che ci accoglieva ogni mattina sulla porta. Quando la neve rendeva impraticabile la strada e non ci consentiva il rientro a Piacenza trovavamo ospitalità a casa di una bidella, che attrezzava dei letti di fortuna per tuti noi».
Una situazione “tosta” eppure le brillano gli occhi quando ne parla.
«Non l’avrei mai lasciata quella scuola. L’ho fatto solo per tranquillizzare mia mamma che ogni mattina, quando mi vedeva uscire di casa, mi salutava come se stessi andando al fronte. In effetti le strade erano quello che erano. Non siamo mai finiti in un burrone però qualche rischio lo abbiamo corso, soprattutto d’inverno.
Era edificante arrivare e lavorare in quel posto. Era bellissimo l’avvicinamento venendo dalla pianura, con i colori delle stagioni, la meraviglia dell’autunno. Erano anni trionfali in cui si lavorava benissimo eppure nessuno ci aveva dato i ferri del mestiere. Fra noi insegnanti condividevamo molto. Poi abbiamo iniziato a sposarci, ad avere famiglia e si è reso necessario avvicinarsi a casa».
Come erano i ragazzi allora?
«Avevano un’altra condizione di vita rispetto ad oggi, altre prospettive ed alle spalle un vissuto importante, da adulti. Se dovessi usare una metafora era un po’ come se noi fossimo state vestite di pizzi e merletti bianchi e ci avessero mandati a lavorare in una carbonaia. Non perché fossero posti di serie B, anzi. Ma bisognava indossare un’altra tuta rispetto a quella che ci avevano cucito addosso all’università.
La loro madrelingua era il dialetto mentre l’italiano era in idioma poco noto. I genitori non venivano ad udienze ma mandavano il parroco perché si vergognavano di non sapersi esprimere se non in piacentino. L’italiano era la lingua dell’elite, di chi veniva da fuori. Dovevamo farli diventare bilingue ed oltretutto alle medie ancora si insegnava latino. Eppure i ragazzi avevano un’attitudine all’ascolto incredibile che i bambini di oggi non hanno più. Erano “rapiti” dall’affabulazione ed erano attentissimi; non abbiamo mai avuto problemi di disciplina. Bisognava solo rapportare la comunicazione all’uditorio, una regola che del resto – ho imparato – è sempre valida quando si insegna.
Allora, anche ad alto livello, non si parlava di tecniche della comunicazione. La nostra formazione era questa, sul campo. Oggi invece gli insegnati dopo la laurea devono fare due anni di “decantazione” in cui imparano le tecniche dell’insegnamento».
Insegnanti diversi e bambini diversi dunque?
«L’infanzia che ho trovato qui al Sant’Orsola non è la stessa di allora. E’ profondamente cambiata. Proprio nei giorni scorsi ero ad un convegno su Tullio De Mauro (inguista ed accademico, già ministro dell’istruzione n.d.r.) con cui ho collaborato in alcuni progetti. Si discuteva dei risultati delle prove Invalsi da cui emergono le difficoltà dei ragazzi di a capire quello che leggono e le poche parole che conoscono sulle tante della lingua italiana. Oggi fortunatamente c’è la ricerca universitaria che studia i processi cognitivi. Si parla di dislessia e di disturbi dell’apprendimento che esistevano certamente anche una volta ma non erano diagnosticati. Ora si sa che esistono processi che bloccano l’apprendimento e la comunicazione: si parla, ad esempio, di mutismo selettivo. Una volta si diceva che un ragazzo, interrogato, aveva fatto scena muta perché non aveva studiato. Abbiamo scoperto invece che c’è tutto un complesso di concause psicologiche ed emotive che portano in bambino ad essere muto selettivamente; ad alcune cose risponde ad altre no. Sono problemi che emergono adesso nello studio del comportamento adolescenziale e pre-adolescenziale nel contesto di una società che molte volte li traumatizza o non tiene conto di loro, li utilizza solo come consumatori.
Molti insegnati lamentano la difficoltà a tenere le classi, la scarsa obbedienza di bambini e ragazzi.
«Si fa fatica ad ottenere l’obbedienza perché spesso l’adulto ha perso il carisma nei confronti dei bambini. I genitori odierni hanno molte colpe da farsi perdonare, diventano allora complici e concedono tutto. Il bambino sa quale degli adulti di riferimento può usare per ottenere ciò che vuole. Mancano i genitori che dicono no e loro stessi sono rimasti un po’ bambini. La generazione genitoriale è in gran parte da formare».
Vanno quasi più formati i genitori dei figli.
«Viene da pensarlo».
Quindi bisogna cambiare il modo di insegnare?
«Certamente. Me ne ero già accorta al Gioia dove ho insegnato tanti anni e dove i ragazzi erano protesi ad apprendere, golosi di sapere. C’era il piacere di ascoltare, di imparare, di fare. Ho inserito molte esperienze laboratoriali ed hanno avuto grandissimo riscontro. Lo stiamo facendo anche qui al Sant’Orsola».
A proposito di Sant’Orsola cosa vuol dire scuola paritaria?
«E’ una scuola che fa parte del sistema educativo nazionale, condivide la normativa ministeriale (voti, indicazioni nazionali, ordinanze, invalsi etc.) e di fatto alleggerisce la spesa che lo stato avrebbe nel sostenere l’educazione di un bambino perché a questa pensano i genitori pagando gli insegnanti con la retta. E’ un servizio pubblico a tutti gli effetti. Come tutte le scuole gode di una sua autonomia e può inserire una serie di varianti. Nella scuola statale ad esempio non è obbligatorio l’insegnamento della religione mentre da noi è come dire scontato visto che la nostra è una scuola di impronta cristiana e di indirizzo cattolico. La nostra autonomia ci permette di allargare o di restringere i campi d’azione delle discipline, di inserirne delle nuove, dilatarne delle altre fermo restando il monte ore annuale che un bambino deve frequentare».
Voi come avete strutturato l’orario?
«Le ore complessive obbligatorie del mattino sono 27 con il sabato libero ed un rientro pomeridiano. Tutte le altre attività sono facoltative. Nel pomeriggio, per chi vuole, abbiamo il doposcuola ed i bambini con le maestre prevalenti fanno applicazione di quanto appreso al mattino. Imparano il metodo di studio seguiti dall’insegnate stessa o da un’assistente, un tutor. Poi organizziamo intrattenimenti educativi che sono straordinariamente vincenti perché si avvalgono del sistema ludico per far apprendere il tedesco oppure la scherma; abbiamo anche un laboratorio per avvicinarli alla preparazione del cibo e degli alimenti e in particolare della cucina piacentina. I bambini al pomeriggio sono stanchi ma imparano attraverso il gioco. Il tedesco lo abbiamo inserito in queste ore perché l’inglese lo abbiamo già dilatato nel normale orario scolastico. Grazie a Dorotea abbiamo portato una ventata di novità: apprendere per imitazione, imparare una lingua trasferendola multisensorialmente attraverso l’udito, la vista, con le parole scritte viste come immagini animate con i cartoni o ancora con il movimento, la danza, la canzoncina. Hanno iniziato ad ottobre e proprio in questi giorni di dicembre faranno un piccolo saggio con dialoghi e scenette in tedesco».
Avete optato per la maestra prevalente?
«Si abbiamo maestre prevalenti che coordinano sia le materie di area umanistica letteraria sia quelle scientifiche mentre nella scuola statale molte volte sono due le figure».
Come mai anziché godersi la pensione ha deciso di buttarsi in questa avventura.
«Ho accettato perché per me questa è una sfida nuova. Mi ha attratto la possibilità di poter agire sul nascere, all’inizio del percorso formativo. I bambini sono pieni di risorse, intelligentissimi, delle spugne che assorbono con una facilità incredibile: un’opportunità che non potevo lasciarmi sfuggire».