Dopo anni di solitudine e di isolamento tra le terre selvagge del Nord Dakota e dell’Alaska, Christopher McCandless scriverà su uno dei suoi taccuini prima di morire che la felicità è autentica solo se condivisa. L’esperienza del protagonista raccontata nel film tratto dall’omonimo romanzo Into the Wild–Nelle terre selvagge, non ha sicuramente nulla a che vedere con la quarantena e il lockdown che stiamo vivendo, ma dopo aver cantato “Il cielo è sempre più blu” sui balconi, esserci abbuffati di serie tv, aperitivi in videochat, e dirette Instagram, ci siamo accorti che questo esorcismo non è più sufficiente a distrarci dalla paura, mentre fuori dalle nostre case nonostante il clima quasi estivo imperversa ancora una tempesta. Ce lo ha ricordato ancora una volta Papa Francesco con la forza della sua presenza durante il rito del Venerdì Santo in una Piazza San Pietro deserta da lasciare senza fiato anche Paolo Sorrentino.
La forza di volontà e la determinazione con cui abbiamo iniziato questa battaglia sentiamo che stanno vacillando, e che avremmo bisogno della condivisione delle nostre fatiche con gli altri: questo virus, privandoci delle relazioni, ci sta insegnando che delle relazioni non possiamo proprio fare a meno e che nessuno si salva da solo. Anche l’importante contributo delle neuroscienze negli ultimi anni ci ha dimostrato che la nostra mente è relazionale: cresce, evolve, si struttura, si definisce solo all’interno di relazioni e il benessere psichico possiamo trovarlo nell’incontro con l’altro. Le epidemie, oltre ad essere emergenze mediche, sono emergenze relazionali perché un virus per sopravvivere necessita di un contagio che si basa sulle relazioni: per limitare il virus abbiamo ormai capito che dobbiamo limitare le relazioni. Non abbiamo però idea di che cosa accada psicologicamente e socialmente quando si vive a lungo all’interno di un regime di quarantena che interessa non solo l’Italia, ma il mondo intero. La rivista Lancet ci viene in aiuto con un recente articolo in cui si descrivono gli effetti psicologici a lungo termine in seguito alla SARS tra il 2003 e il 2005: ne risulta che ancora dopo tre anni, essere passati dalla quarantena correla con sintomi di stress post traumatico (stati ansioso-depressivi, fobie sociali, aumento dei disturbi alimentari e delle dipendenze). La diffidenza relazionale e i timori del contatto sociale che stiamo sperimentando da quasi due mesi, in cui chiunque si avvicini a meno di un metro e mezzo di distanza è un potenziale nemico, rimarranno nel tempo. Incrociare gli altri nelle nostre attese ai supermercati ci provoca appunto sentimenti ambivalenti: da una parte c’è una reciproca comprensione per la medesima dolorosa situazione che ci porterebbe ad avvicinarci, dall’altra il pensiero immediato che un eccessivo avvicinamento significherebbe il rischio di un contagio. L’altro che sento come me, nella mia stessa fragile condizione, è anche pericoloso.
Franco Basaglia, medico e psichiatra che ha dedicato un’intera vita alle forme più estreme della fragilità e al dolore della follia, una volta disse che dobbiamo imparare a fare qualcosa con il buio.
Da psicoterapeuta non posso non pensare al buio in cui rischiano di sprofondare tantissime persone confinate nelle proprie case; non posso dimenticare dinamiche concrete di fragilità che nella quarantena rischiano scompensi non di natura infettiva, ma psichica. Penso ai figli chiusi in casa con genitori che vivono una crisi di coppia, ai ragazzi rinchiusi in una comunità casa-famiglia, agli anziani soli, alle persone che soffrono di una forma di psicopatologia o disabilità, alle donne costrette a subire l’aggressività di mariti o padri abusanti, o a tutti coloro che in queste settimane hanno perso un familiare a cui non hanno potuto dirgli addio. “La gente non muore, la gente scompare”, mi confidano operatori sanitari e pazienti, vivendo un trauma pari a quello vissuto dalle famiglie dei Desaparecidos in America Latina, perché l’elaborazione di un lutto e la cura delle lacerazioni di ogni legame che si spezza, parte ancora una volta dal potersi relazionare con l’altro che viene a mancare. Questo è il virus che ha ucciso i rituali, per questo motivo tra le varie fasi del “dopo” sarà necessario permettere alla nostra comunità la possibilità di agire non solo ritualizzazioni collettive dedicate alla sepoltura delle persone e al commiato sociale, ma attivare fin da subito interventi psicologici a lungo corso che permettano di iniziare ad elaborare ciò che sta accadendo, ciò che fino ad ora abbiano negato con insistenza, ovvero che siamo fragili e mortali, e che quando inizierà la famosa Fase 2 dovremo adattarci a nuovi rituali sociali.
Dal 21 febbraio scorso sono tante le parole entrate forzatamente a far parte del nostro vocabolario quotidiano: pandemia, distanziamento sociale, lockdown, clorochina, anticorpi. Virologi e micro-biologi per spiegarci come il COVID-19 si sia diffuso tra gli uomini hanno fatto riferimento al cosiddetto spillover che come racconta David Quammen nell’omonimo libro, è il salto di specie che permette ad un virus di passare dalla specie animale a quella umana per riuscire a vivere, evolvere e garantirsi un futuro. Il nostro salto di specie, il nostro spillover è iniziato: immaginiamo il dopo cominciando adesso per evitare che l’impensabile ci colga ancora una volta di sorpresa.