Nuova puntata della rubrica l’Azienda del mese nata dalla collaborazione editoriale fra PiacenzaOnline e Confcommercio Piacenza. Come sempre il nostro giornale cerca di farvi conoscere più da vicino realtà storiche o di particolare interesse fra quelle iscritte all’associazione di strada Bobbiese.
Ci sono a Piacenza alcune attività che con il passare del tempo sono diventate un vero simbolo della città al pari di una statua, di un edificio storico. Fra questi punti di riferimento c’è senza ombra di dubbio Piccadilly, negozio di scarpe ed abbigliamento avviato nell’ormai lontano 1963 dalla signora Romana Garilli. Una realtà che ha attraversato mode ed epoche e che la titolare continua a portare avanti in prima persona, con tenacia ed orgoglio, nonostante le 86 primavere che ha sulle spalle. La incontriamo in Galleria San Francesco, a pochi metri da piazza Cavalli, sotto i portici del Terzo Lotto che lei ha visto nascere e che è sempre stato il fulcro del suo lavoro.
«Siamo state le seconde ad aprire qui, subito dopo Monterumici. Non avevano ancora finito i lavori. Avevo aperto con una socia. Eravamo due ventenni, non sapevamo niente di scarpe. Mio padre aveva una panetteria, prima a San Lazzaro e poi in via Scalabrini. Io ero la più grande di tre figli, due femmine ed un maschio. Quando mio padre si ammalò di una grave allergia che gli impediva di panificare, mio fratello era a militare e così toccò a me prendere le redini dell’attività. Ma dopo un po’ mi stancai di dovermi alzare alle due del mattino. Non era il mestiere per me. Conobbi una giovane a Riccione e scoprii che era anche lei piacentina. Nacque un’amicizia e decidemmo di aprire assieme un negozio di scarpe. Restammo socie per sei/sette anni poi lei preferì avviare una profumeria in via Daveri e io continuai da sola. Era il periodo del boom economico ma le cose non erano comunque facili anche perché era un settore totalmente nuovo per noi e qualche fregatura l’abbiamo presa, come quando un rappresentante di una importante ditta di Firenze ci convinse ad acquistare 600 paia di sandali. Tanti considerando che avevamo appena aperto».
Si approfittò della vostra inesperienza insomma …
«Era pieno di “volponi”. Vedevano due ragazze giovani e tentavano di approfittarne. Ma non tutti erano così, anzi. In grande parte i fornitori erano piccoli calzaturifici con cui si costruivano rapporti di fiducia ed amicizia. Pensi che uno di loro, di Parabiago, ci mandò il suo ragioniere per qualche giorno per insegnarci a tenere i libri contabili. Negli anni molti hanno chiuso e sono rimaste le grandi aziende con cui le relazioni sono cambiate, sono diventate un po’ più impersonali».
Scarpa dopo scarpa, il suo giro d’affari è cresciuto e da un singolo negozio in affitto è arrivata ad averne parecchi, con anche la proprietà dei muri.
«La mia fortuna l’hanno fatta due o tre dipendenti storiche. Erano bravissime a vendere, più brave di me. Una è rimasta per oltre trent’anni finché si è ammalata. Oggi è difficile, se non impossibile trovare personale così. Ad un certo punto ho capito che dovevo espandermi, lo spazio del primo negozio non bastava più. Mio marito era contrario, mi diceva di non farlo. Io invece presi un negozio in via XX Settembre.E poi ebbi una seconda intuizione. In aeroporto vidi tante signore eleganti che avevano borse e bagagli con la grande F di Fendi disegnata. Aprii un negozio monomarca. Non ce ne erano neppure a Milano. Fu un successo. Con mio marito aprimmo in seguito l’Emporio con i prodotti Prada. Sono arrivata ad avere sei o sette negozi, compreso uno a Bergamo ed uno a Ibiza».
Poi cosa è successo?
«Purtroppo due eventi quasi contemporanei ed ugualmente drammatici. Io avevo lasciato progressivamente le redini dell’attività a mio figlio che risiedeva in Svizzera e lui si avvaleva per la gestione quotidiana di una collaboratrice che purtroppo ha portato a notevoli ammanchi economici e di conseguenza anche a problemi amministrativi e fiscali. Come se questo non bastasse in seguito ad un semplice incidente d’auto si è scoperto che mio figlio aveva una malattia molto grave di cui, fino ad allora nessuno si era accorto. Non credevo di chiudere la mia vita in maniera così tragica, una situazione che non pensavo di meritare. Ho sempre fatto tutto per mio figlio, “respiravo per lui” e vederlo in questa condizione a nemmeno 50 anni …. Ma mi devo far forza, non devo crollare. E’ sempre stato un ragazzo buono. Lo sgridavo perché faceva sconti a tutti, troppi sconti».
Davanti a questa situazione perché non ha preso la decisione di smettere, trovando un modo per sistemare le posizioni che ha ancora aperte e andandosene in pensione. A 86 anni sarebbe più che giustificata.
«Innanzitutto per un motivo di orgoglio. Non posso concepire l’idea di mandare a pallino quello che ho costruito in questi anni. Avrei risorse per vivere ma voglio continuare e sistemare tutto. Mio marito, i miei fratelli sono morti. Non ho altri parenti. A parte mio figlio sono sola. Il negozio per me è una distrazione, mi costringe a pensare ad altro ad accantonare per un attimo un dolore che è troppo grande. Alla domenica, quando sono in casa … divento matta. Certo se dovessi ammalarmi anche io, non so cosa succederebbe, a chi potrei appoggiarmi. Spero che la salute continui a sostenermi».
Non per piaggeria ma la signora Romana non sembra assolutamente aver superato (abbondantemente) gli ottant’anni. La si potrebbe facilmente scambiare per una settantenne ed anche una in gamba. Tanto che a quest’età vorrebbe porre rimedio a quello che definisce un suo piccolo errore.
«Quando mio figlio ha avuto l’incidente, mentre andava in aeroporto, era con la mia auto che ne è uscita malconcia. Abbiamo deciso di rottamarla e io ho scelto di non rinnovare la patente. Ora me ne pento amaramente ed ho quasi intenzione di fare le pratiche per riprenderla. Ogni volta che devo buttare le scatole vuote – e sono tante – è un problema. Se avessi nuovamente la macchina, avrei risolto. Non per fare viaggi lunghi ma per queste piccole attività o magari per fare un giro in campagna alla domenica. Mi aiuterebbe ad arrangiarmi un po’. Io non mi arrendo».
Un’affermazione che la signora Romana accompagna con un sorriso che rivela la dolcezza sepolta dietro ad un volto apparentemente severo. Decisa la è, al di là di qualunque dubbio. Al contempo è una persona che nonostante le avversità sa cogliere quanto di bello e positivo c’è nella quotidianità.
«Spesso si dice che i piacentini sono chiusi. Le dirò però che io sto avendo tante dimostrazioni di affetto anche da semplici clienti. Non me lo sarei mai aspettato. C’è una signora che tutte le sere passa qui da me in negozio per sapere come sto. Un gesto piccolo che mi dà una enorme forza. Come il signore che è appena uscito e che mi ha fatto i complimenti per il negozio, dicendomi che lui viene a comprare qui da me, da un’altra provincia. Mi ripagano di più cose così rispeto a grandi incassi. Tanto più in un mondo come questo che è totalmente diverso».
Cosa è cambiato rispetto al passato?
«Molto, moltissimo. Oggi aprire un negozio e mandarlo avanti è davvero difficile sia perché c’è la concorrenza dell’online, sia perché sono cambiate le persone. E’ anche complicato trovare personale motivato e preparato. C’è chi pretende subito tutto e poi arriva un cliente e nemmeno lo saluta. Sul fronte degli acquirenti una volta si aveva il negozio di fiducia e si andava lì per generazioni. Oggi i giovani vengono solo se hai una determinata marca. Io, dopo quello che è successo, ho tenuto tanti marchi popolari, anche fra i ragazzi, e ho deciso di lasciarne altri storici come Hogan o Stella McCartney. Diego Dalla Valle lo avevo conosciuto personalmente ed ho lavorato per una vita vendendo le loro scarpe. Ho dovuto fare delle scelte. Se sono ancora in piedi è un miracolo. Fossi stata una persona fragile non so dove sarei andata a finire. Recentemente ho partecipato a MICAM, una fiera del settore a Milano. Erano stupiti che fossi ancora in giro alla mia età.
Tornando alla clientela, al sabato capita spesso che vengano coppie ad acquistare ed inizino a discutere fra loro perché al marito piace una scarpa e alla moglie un’altra e viceversa. Fanno foto con il telefonino, le mandano alla mamma o ad un’amica per avere un parere e magari escono dopo mezz’ora senza aver acquistato nulla. Sono indecisi. Una volta venivano le ragazze, negli anni ’70, da sole, e provavano ad infilarsi gli stivali (che erano di moda). Non ci riuscivano perché erano troppo stretti e difficili da calzare. Li pagavano e me li lasciavano qui per allargarli. C’era un rapporto di fiducia cliente negoziante che un po’ si è perso. Adesso, davanti alle scene che raccontavo poco fa, fatico a stare zitta. Alla fine però mi taccio. A 80 anni il mondo un po’ l’ho conosciuto!»