Due foto del 1943, scattate nella provincia di Macerata, tra San Severino e l’abbazia di Roti, ritraggono un gruppo di partigiani del battaglione Mario Depangher. Tra i combattenti, figurano anche Carletto Abbamagal, Abbagirù Abbauagi e Aden Scire Giama, africani originari di Etiopia, Eritrea e Somalia. Chi sono questi partigiani d’oltremare e perchè combatterono per la Resistenza contro il nazifascismo? Queste le domande che hanno portato Matteo Petracci, assieme a Giovanni Cattabriga del collettivo Wu Ming a intraprendere un viaggio a ritroso alla scoperta di questo curioso caso di internazionalismo partigiano, i cui esiti sono stati presentati alla cooperativa Infrangibile, nell’ambito di un incontro organizzato dal collettivo Controtendenza.
Una storia che affonda le radici in epoca fascista, quando pochi mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia, a Napoli viene organizzata – spiega Petracci – una “mostra dei tesori d’oltremare” per celebrare i successi del colonialismo italiano nell’architettura e nell’urbanistica. Tra le attrazioni, c’è spazio anche per i sudditi del nuovo regime, i quali, attraverso degli “zoo coloniali” composti da cittadini eritrei, somali e libici, vengono esposti al pubblico in baracche di legno dove venivano ospitate intere famiglie, recintate con il filo spinato. Una sorta di Grande Fratello destinato alle razze inferiori soggiogate dal fascismo, concepito per alimentare il culto della civilizzazione occidentale e soddisfare al contempo, il gusto esotico per il diverso. Eppure la mostra, che sarebbe dovuta durare fino a ottobre dello stesso anno, sarà costretta a chiudere i battenti ben prima, a causa dell’ingresso in guerra dell’Italia e del conseguente inizio dei bombardamenti alleati.
Che fare dunque di questi coloni prestati dalle ambasciate dei paesi del Corno d’Africa? Se per i libici non sussiste problema perchè basta il piroscafo per rimpatriarli, per somali e eritrei, occorre passare dal canale di Suez ora in mano inglese.
Petracci ricostruisce la decisione del trasferimento coatto. “Alcuni di loro vengono scritturati in un film (Knock-out) Harlem come comparse a Cinecittà, nella parte di tifosi di un pugile di colore. Dopodiché vengono spostati a Treia, vicino a Macerata presso la Villa Spada.
Lontano dalle bombe e circondati da popolazione contadina – meno incline a creare problemi di convivenza e ordine pubblico – qui i coloni avevano libertà di spostamento nelle ore diurne, godevano del permesso di macellare le pecore con rito Halal e iniziano a integrarsi con la popolazione locale”.
I problemi di convivenza avvengono, perlopiù, all’interno della struttura. “In una sentenza del tribunale di Macerata – continua Petracci – leggiamo di conflitti tra somali eritrei (askari) e etiopi che parlavano tra loro in italiano.
I circa 31 ospiti della Villa rimarranno qui fino all’8 settembre 1943 quando, sfruttando l’abdicazione del re, alcuni di loro scapperanno raggiungendo il Monte San Vicino. I contadini locali, nonostante pendesse una taglia di 3mila lire sui fuggiaschi, non denunciano”.
Il momento cruciale avviene però il 28 ottobre – prosegue Petracci, quando un gruppo partigiano capitanato da Mario Depagher dà l’assalto alla villa. Dopo l’azione altri nove decidono di unirsi alle truppe partigiane, ma molti di loro cadranno a seguito della reazione fascista.
A Wu Ming 2, pseudonimo di Giovanni Cattabriga, spetta la ricostruzione della figura di Mario Depangher. Nato a capo d’Istria durante il periodo dell’impero austroungarico, era entrato nella gioventù socialista passando come disertore la prima guerra mondiale. Era stato arrestato durante l’attacco della sede dell’avanti a trieste da parte dei nazionalisti. Qui gli venne offerto di diventare capitano di navigazione a condizione di lasciar perdere la lotta di classe con il Pci. Mario rifiuta e finisce al confino a Lipari, scappando e trovando riparo in giro per l’Europa.
Arrestato nuovamente a Reggio Emilia, finisce in un campo prigionieri a San Severino Marche in cui a partire dall’8 settembre 43 avrebbe organizzato un gruppo di resistenza all’antifascismo. Di tipo slavo. Il 14 settembre avviene già il primo attacco ad un deposito di armi. Poi il 16, l’assalto alla caserma dei carabinieri. Il 27 dello stesso mese, i partigiani prelevano il direttore del carcere di San Severino dove erano detenuti diversi prigionieri politici. Il primo ottobre i tedeschi organizzano il primo rastrellamento a cui il battaglione riesce a resistere riparando sui monti. In ottobre, al gruppo di Depangher si presentano i tre africani protagonisti della nostra storia, dando l’avvio ad un’esperienza di meticciato partigiano, le cui fotografie – spiega Petracci – “rappresentano una testimonianza iconografica da lasciare come messaggio e come testamento nella lotta al nazifascismo su base razziale ariana“.
La storia dei tre partigiani d’oltremare, tuttavia, non è una storia a lieto fine. Carletto Abbamagal, l’etiope, morirà nel novembre 1943. Avvistato da un fascista su un’altura, viene raggiunto da un colpo di fucile. La sua salma, riesumata, è ora sepolta nel cimitero cittadino.
Abbagirù Abbauagi, eritreo, viene accusato di furto e dell’uccisione di una guardia nazionale. Rimarrà a macerata detenuto fino al 1947. Scriverà una lettera in italiano indirizzata all’Anpi in cui comunica che verrà discusso il proprio processo il successivo 23 giugno.
Aden Scire Giama, invece, torna in Somalia alla fine della guerra. Riconosciuto dalla figlia nella foto pubblicata sul blog Giap dai Wu Ming, divenne una figura di spicco del processo di indipendenza somalo, diventando Ministro di Grazia e Giustizia. Dopo il colpo di stato di Siad Barre, Aden viene arrestato, passa tre anni in carcere dove viene ripetutamente torturato, per venire infine liberato solo nel dicembre del 1973. Raggiungerà l’Italia per reincontrare i vecchi compagni partigiani, ma una volta arrivato a Fiumicino, verrà immediatamente portato in una clinica di Roma per le ferite subite. Morirà dopo 10 giorni prima di riuscire raggiungere gli ex compagni partigiani nelle Marche.