Il discorso pronunciato questa mattina dal sindaco di Piacenza Patrizia Barbieri in occasione della cerimonia di commemorazione delle vittime delle Foibe e della tragedia istriana nel secondo Dopoguerra.
«Nella giornata dedicata al ricordo della tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, il buio delle voragini carsiche che inghiottirono, tra il 1943 e il 1947, migliaia di vite, si imprime come il simbolo più forte dell’orrore e di una brutale disumanità che il tempo non può cancellare. Una ferita che ha segnato per sempre la coscienza del nostro Paese, ma troppo a lungo è stata rimossa e occultata da quella che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, celebrando questa ricorrenza pochi anni dopo la sua istituzione, definì “congiura del silenzio”, esortando ad assumersi “la responsabilità di aver negato, o teso a ignorare la verità, per pregiudiziali ideologiche e cecità politica”.
Rievocare, oggi, ciò che è stato, significa guardare nella profondità di quelle fenditure senza chiudere gli occhi di fronte ai corpi gettati gli uni sugli altri – vivi e morti – di anziani e bambini, uomini e donne che subirono indicibili umiliazioni e sofferenze nel nome di un aberrante disegno di epurazione. Vuol dire ripercorrere il cammino doloroso di oltre 300 mila persone costrette a lasciare le loro case, il loro lavoro e le proprie radici a seguito delle persecuzioni perpetrate dai miliziani di Tito, volte ad annichilire ogni forma di opposizione al regime comunista jugoslavo e a cancellare l’identità italiana sul territorio di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia.
Piacenza rende onore, con questa cerimonia semplice e solenne, alle vittime di quella barbara violenza, che dopo l’8 settembre del ‘43 si abbattè con ferocia contro tutti coloro che venivano considerati “nemici del popolo”: ridotti alla fame, torturati, buttati in quelle fosse comuni così come si gettano, tra i rifiuti, gli oggetti ormai privi di qualsiasi valore. Come se la dignità e il diritto alla vita potessero davvero misurarsi in base alla provenienza geografica, alla nazionalità, alle convinzioni politiche. Eppure, la matrice dell’odio non si sarebbe fermata, ma divenne ancor più forte quando, nella primavera del 1945, il nostro Paese festeggiava la fine della guerra e la liberazione nelle piazze delle città italiane.
Le truppe di Tito occuparono Trieste, Gorizia e l’Istria. Si accanirono non solo contro i militanti di tutti i movimenti che non aderivano all’ideologia totalitaria del comunismo, ma infierirono sulla popolazione inerme e innocente, sulle donne e sui bambini, sugli insegnanti e sugli stessi partigiani italiani, sui cattolici e sugli uomini di chiesa. Tra le decine di sacerdoti che vennero uccisi in spregio all’abito talare, per il loro ruolo sociale di guida e riferimento nella propria comunità, c’era anche il Beato don Francesco Bonifacio. Aveva 34 anni, quando in una sera di settembre del 1946 venne trascinato nel bosco mentre rincasava lungo un sentiero. Di lui non si seppe più nulla, ma si disse che pregò fino all’ultimo, mentre le pietre lanciate dai suoi assassini lo colpivano per la capacità di coinvolgere i giovani, di resistere alla propaganda antireligiosa, per la sua tenacia nel difendere la propria fede.
Martire delle foibe come prima di lui Norma Cossetto, studentessa di Lettere all’Università di Padova, arrestata nell’autunno del 1943; il suo corpo, violato ripetutamente dagli aguzzini che l’avevano imprigionata, fu mutilato senza pietà prima di essere gettato nel ventre della terra. Lo Stato ha tributato alla sua memoria la Medaglia d’oro al merito civile, “per la luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio”. Nella sua storia, come in quella di don Francesco, ritroviamo un senso autentico di solidarietà – per troppi anni taciuta, persino rifiutata – che abbraccia tutti coloro di cui ignoriamo il nome, per i quali non ci sono stati riconoscimenti ufficiali. E lo facciamo, ancora una volta, nell’impegno condiviso affinchè la conoscenza del passato sia custodita e trasmessa alle giovani generazioni come insegnamento di valore universale.
Perché di fronte a tanto dolore, nel riaprire ferite che non si sono mai rimarginate, non possono esserci parzialità né strumentalizzazioni. Chiunque creda nella democrazia, nella libertà, nella convivenza civile, nel rispetto delle persone e della loro dignità, non può che rifiutare ogni forma di oppressione fondata sulla violenza, ogni declinazione dell’estremismo nazionalista. Lo ha ribadito, proprio in occasione di questa giornata, il presidente Mattarella, definendo le foibe “una sciagura nazionale, un evento del passato cui i contemporanei non attribuirono, per superficialità o calcolo, il dovuto rilievo”.
Le sue parole ci ricordano non solo che “quegli episodi tragici ci insegnano che l’odio, la vendetta e la discriminazione germinano solo altro odio e violenza”, ma richiamano anche al dovere di “coltivare la memoria per contrastare, nel presente, piccole sacche di deprecabile negazionismo militante”. Perché, ha aggiunto, “l’angoscia e la sofferenza delle vittime restano un monito perenne contro le ideologie dei regimi totalitari, che in nome della superiorità dello Stato, del partito o di un presunto ideale, opprimono i cittadini, schiacciano le minoranze e negano i diritti fondamentali”.
Su questo, oggi, dobbiamo riflettere con responsabilità e consapevolezza. Solo così potremo rendere un omaggio sincero e significativo alle famiglie spezzate, alle ragazze e ai ragazzi che non hanno potuto realizzare i propri sogni, a tutti gli italiani che sono stati, per troppi anni, profughi nel loro stesso Paese. Non dimentichiamoli».