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Il racconto di un giornalista piacentino sulle tracce del gulag sovietico di Yakutia

Non si è parlato solamente dello stato di salute (pessimo) del diritto di proprietà in Italia, alla quarta edizione del Festival della cultura della libertà che si è svolta a Palazzo Galli per iniziativa dell’Associazione dei Liberali Piacentini in collaborazione con Confedilizia, Il Foglio, il Giornale ed European students for liberty. L’ultima delle dieci sessioni nelle quali si è articolata la manifestazione, ha infatti ospitato il giornalista del TG 5 Luigi De Biase, (piacentino, inizio della carriera alla Cronaca di Piacenza, proseguita al Corriere Canadese di Toronto, poi al Foglio – che lo manda spesso come inviato nei Paesi dell’ex Urss, di cui diventa profondo conoscitore – e infine a Mediaset), che ha raccontato la sua recente (e non ancora ultimata) esperienza in Yakutia (Siberia orientale) sulle tracce dei gulag sovietici.

Un tema – come noto – di grande interesse per i Liberali Piacentini, che stanno conducendo una grande operazione verità rispetto al fatto che i crimini del comunismo siano considerati uguali a quelli del nazionalsocialismo (concetto finalmente fatto proprio dal Parlamento europeo). L’Associazione Luigi Einaudi organizza da tre anni a questa parte viaggi per raccogliere testimonianze nelle lontane terre dove furono deportate milioni di persone dal regime sovietico (Kazakistan, Paesi Baltici e, quest’anno, la meta è già stata individuata in Berlino), promuovendo conferenze e mostre fotografiche per dare testimonianza delle atrocità compiute (di cui mai si parla, men che meno nelle scuole). Luigi De Biase affiderà invece a un documentario il racconto di quello che ha scoperto nella più estesa unità amministrativa del mondo, un territorio di 3 milioni di chilometri quadrati con un solo milione di abitanti e ricchissimo di materie prime, tra le quali oro, petrolio e gas naturale.

«E’ la prima volta – ha rivelato il giornalista al pubblico del Festival – che mostro parte di ciò che ho raccolto per la realizzazione di un documentario di 60 minuti che sarà pronto nella seconda metà del corrente anno. (Continua dopo le foto)

In queste terre inospitali, con temperature invernali che possono raggiungere i 70 gradi sotto zero d’inverno e i 40 d’estate, con un’escursione termica di 110 gradi, furono deportati ai tempi di Stalin centinaia di migliaia di prigionieri, rinchiusi nei campi di lavoro, impiegati nelle miniere e nella costruzione della cosiddetta strada delle ossa (così chiamata per l’alto numero di deportati che vi persero la vita, ndr), voluta dallo stesso Stalin».

La scorsa estate l’inviato del TG5 – che parla correntemente il russo – si è recato nelle impervie zone della tundra accompagnato da un operatore russo e da un cacciatore del posto. Ha incontrato figli e nipoti dei prigionieri (polacchi, ucraini che hanno scelto di rimanere a vivere lì) e il popolo indigeno, mongoli che si sentono eredi di Gengis Khan. L’obiettivo, trovare traccia di un villaggio-gulag inghiottito dalla vegetazione della tundra.

«Con l’aiuto di un drone abbiamo perlustrato un’ampia zona – ha raccontato De Biase – e trovato i resti di un villaggio dove vivevano centinaia di prigionieri. Questo è molto importante perché consente di ricostruire una parte di storia in collaborazione con i russi, che solo da 7-8 anni hanno iniziato a fare i conti con questo scomodo passato (a Mosca è stato realizzato un museo sui gulag finanziato da privati, ndr), anche se a livello sociale c’è ancora molta difficoltà ad affrontare l’argomento. Il cacciatore che ci ha accompagnato, per esempio, mi ha scongiurato di toglierlo dalle riprese video che entreranno nel documentario. I prigionieri vivevano la quotidianità in un luogo selvaggio, freddissimo d’inverno e caldissimo d’estate, con una quantità d’insetti insopportabile e inimmaginabile».

Al ritorno dall’avventurosa scoperta del campo di prigionia, il cacciatore locale ha affidato al giornalista piacentino un libro compilato nel 1944-1945 dal capo ingegnere che costruì il gulag, con le istruzioni sui sistemi di costruzione della struttura (alcune pagine sono state proiettate per la prima volta in pubblico). «Un documento eccezionale – ha spiegato il giornalista -, che apparteneva al servizio segreto precursore del Kgb e che ha cambiato l’impostazione del lavoro che sto facendo, dove il gulag ha assunto un’altra dimensione nel mio racconto. In quel libro si capisce che il regime schematizzava la manifattura dei villaggi-prigione. Ci sono i disegni delle baracche, che potevano ospitare fino a 20 persone e che sembravano di buona fattura, perché per propaganda si voleva dimostrare che i prigionieri erano trattati bene. E c’è il disegno della torre d’avvistamento, che nei gulag non mancava mai». Fra un paio di settimane Luigi De Biase tornerà in Yakutia per girare le riprese invernali del documentario, che verrà prodotto dalla Omnia, società di Piacenza, con il sostegno di alcuni imprenditori locali.

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