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Ma ci sono, in Italia, banche da far divorare e banche da difendere?

Dal 9 aprile è in vigore in Italia una forma di “golden power” (poteri speciali,  a scudo normativo) allargata. “Al fine di contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, col decreto legge (Conte, o della liquidità) n. 23/’20 (capo III, art. 15 e segg.), la possibilità di assumere da parte del Governo ed esercitare poteri speciali in “settori di rilevanza strategica” è stata estesa – per quanto qui interessa – al settore “creditizio” (alle banche, cioè; meglio: alla difesa delle stesse dal capitale estero), e ciò quando prima – e da quando, quasi 10 anni fa, questo istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento – era limitato alle reti elettriche nonché di telecomunicazioni e, sostanzialmente, alle sole imprese ad alta intensità di tecnologia.

La spiegazione dell’allargamento l’hanno de plano data due ministri: si tratta – ha riassunto una nota dell’IBL-Istituto Bruno Leoni – di un tassello all’interno di una strategia più ampia, volta a dotare il Paese di un “vaccino contro il virus delle scalate ostili” (Riccardo Fraccaro), nonché il “primo passo” verso “la costituzione di una nuova Iri” (Stefano Patuanelli).

Lasciamo stare la vecchia (fascista, si può dire?) e la nuova (pentastellata, si può dire?) Iri, anche perché qualcuno dice che la nuova c’è già, è la Cassa depositi e prestiti, con le funzioni – ed i compiti – che da ultimo alla stessa sono stati conferiti. Ma con le banche (cioè: con l’aggiunta delle banche) come la mettiamo?

La protezione con il golden power “sarebbe motivata da ragioni di sicurezza nazionale” ha scritto su MF (2.4.’20) un’autorevole firma del giornale, Angelo De Mattia. Che, in precedenza (31.3.’20) sempre su MF, aveva rievocato i tempi (da lui ben ricordati, per averli – anche – direttamente vissuti) del “sacro furore” contro la Banca d’Italia di Antonio Fazio, che aveva posto “il problema di una competizione ad armi pari, tra intermediari italiani e intermediari esteri”.

Il pensiero unico ispirato dalla finanza internazionale disse (e scrisse, soprattutto) allora, che le banche estere (“già presenti in Italia in quantità superiori a quelle degli istituti italiani all’estero”) avrebbero avuto – ricorda De Mattia – “effetti benefici sulle quantità e sui tassi dei finanziamenti”, ma s’è poi visto che le cose sono andate esattamente all’incontrario di quanto (in buona fede?) preconizzato. E allora, oggi, senza fare “neppure la necessaria autocritica” (De Mattia) perché i giornaloni, e certi autori, nulla dicono sulla difesa (odierna) delle banche “italiane”? La risposta, purtroppo, è semplice: perché non sono più “italiane”, perché le grosse banche sono tutte – chi più chi meno, ma tutte in modo sostanzialmente determinante – di proprietà del capitale estero, in tutte i fondi speculativi esteri detengono posizioni e quantità di azioni determinanti. E la loro difesa è funzionale all’instaurazione in Italia di quell’oligopolio bancario al quale ormai da anni, con evidenza, il capitale estero tende.

Ma – si dirà – quello di Conte è un “golden power” a tempo. Intanto, è la replica, si vedrà come andrà a finire dopo la fine dell’anno. Poi, soprattutto, qua non è questione di difesa provvisoria o prolungata. La questione è un’altra, ben più diversa e ben più significativa: com’è che solo oggi le banche sono diventate “di rilevanza strategica”, a protezione giustificata “da ragioni di sicurezza”? Se lo sono, lo sono sempre. E se non lo sono, non lo sono mai. Non possono essere tali a intermittenza. Se quanto si sostiene oggi fosse stata (come è) cosa pacifica anche qualche anno fa, la riforma Renzi contro le Popolari (che ha consegnato al capitale estero – come si sapeva perfettamente che sarebbe capitato – fiorenti banche, facendo strame – anche – di una gran parte delle banche di territorio rimaste) non sarebbe, all’evidenza, stata mai  varata.

Se alcuni anni fa si fosse tenuto presente che fu il sistema delle banche di territorio (ne nacquero 320 circa – quasi tutte Popolari – solo nei 25 anni di governo della Destra unitaria, fra il 1853 e il 1878) a preservare la concorrenza fra banche – la Banca d’Italia le difendeva per questo – e a trasformare il Paese da agricolo in industriale, proprio finanziando quel sistema delle piccole e medie imprese che costituiva, e costituisce, la nostra ricchezza nazionale e che oggi non ha invece più riferimenti o quasi, se questo (dicevo dunque) si fosse tenuto presente, certo non si sarebbe fatto quel che si è fatto, non si sarebbe accettato supinamente il pensiero unico della finanza internazionale perfin anticipando per decreto legge il bail-in (di cui oggi non si sente neppure più parlare, ci avete fatto caso?), così che siamo stati l’unico Paese, ad oggi e credo per sempre, in cui esso è stato applicato.

Sono interrogativi, e pensieri, inquietanti. Ma speriamo servano, almeno, per il futuro. La storia ci insegna che, dopo ogni pandemia (dalle antiche come quella di Costantinopoli, a quella medioevale del Boccaccio, a quella – ancora – del Manzoni, alla spagnola del secolo scorso), dopo ogni pandemia le cose non sono mai più andate come prima. Nel nostro secolo, speriamo sia così anche per il settore del credito. Di ricchezza bancaria, perlomeno in Italia, ne abbiamo già distrutta anche troppa.

 Corrado Sforza Fogliani – presidente Assopopolari

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