Non è una notizia che si sente spesso nelle breaking news dei telegiornali, ma la pena di morte miete vittime in tutto il mondo e nonostante si cerchi di debellarla molti stati, anche quelli così detti “civilizzati”, faticano ad eliminarla.
Per questo è importante parlarne, come è successo durante l’incontro di ieri, mercoledì 18 ottobre presso l’Auditorium della Fondazione Piacenza e Vigevano “La morte come pena – riflessioni sulla pena di morte”. Relatori della serata Lidia Frazzei di Amnesty International in qualità di promotore, Riccardo Mauri, rappresentante della Comunità di Sant’Egidio e Dino Guido Rinoldi, professore ordinario di Diritto dell’Unione Europea presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza.
«Purtroppo nella società di oggi cresce il senso di paura – ha esordito Riccardo Mauri -, portando le persone a ragionare d’istinto. Ma è con la ragione che si difende l’umanità, e la dignità dell’essere umano. La sentenza capitale è uno strumento classista, razzista ed è ingiusto, esposto all’errore giudiziario e per questo influenza tutte le famiglie del condannato: anche quelle che chiedono un risarcimento non si sentono mai completamente risarcite. Il dialogo fa molto di più rispetto a un tribunale sommario. Per eliminare la pena di morte sono state raccolte firme anche in luoghi dove essa è vigente».
Mauri ha poi invitato a non cadere nella trappola della semplificazione: «È importante mettersi nei panni di un interlocutore esterno, riflettere se noi non diamo la stessa impressione di persone fanatiche che predicano in un certo modo e poi chiedono la condanna a morte, in modo da volerci sentire sempre sicuri».
Lidia Frazzei nel suo intervento ha tenuto a precisare che «contrariamente a quello che si possa pensare in uno Stato dove vige la pena di morte si contano molti più casi di omicidio rispetto a uno senza».
Peraltro le sentenze capitali sono spesse strettamente legate alla povertà.
«Le diseguaglianze economiche e sociali – ha sostenuto l’esponente di Amnesty – fanno molto. Spesso non ci sono le capacità per sostenere le spese di un processo, inoltre è iniquo l’accesso alla giustizia: viene offerto un difensore d’ufficio poco efficace, poco retribuito e per questo poco stimolato. Non esiste una rete sociale di sostegno, esistono discriminazioni e pregiudizi nei confronti dei cittadini poveri».
La Frazzei ha portato qualche dato derivante dal rapporto 2016 di Amnesty, per dare un quadro dettagliato della situazione: le condanne nel 2016 sono 3.117 in 55 Paesi. La maggioranza delle condanne provengono da Cina, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Iraq.
Tuttavia i dati cinesi sono secretati, perciò la reale entità non è saputa.
Il tema della ricerca della verità è stato approfondito da Dino Guido Rinoldi, che ha fatto riferimento a importanti testi, partendo dall’art.27 della nostra Costituzione, ove viene esplicitato che “non può essere ammessa la pena di morte”, proseguendo con la citazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dove viene espresso all’art.2 il diritto alla vita. La Bielorussia risulta fuori da questa Convenzione. Particolare il caso della Russia: «La pena di morte formalmente è prevista dal Codice russo, tuttavia non vi viene data esecuzione – ha spiegato il professore -; vi sono condannati al Braccio della Morte per anni, in attesa di sapere il proprio destino, che è forse peggio della pena di morte». L’Europa tutela anche i rifugiati, attraverso la Direttiva 2011/95/UE, che li ritiene beneficiari di protezione internazionale.