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Una riflessione di Michele Giardino su benessere economico e crisi delle dottrine

«Qualche sera fa, nella cripta di San Giuseppe Operaio ho assistito alla presentazione del nuovo libro di don Giancarlo Conte, “Chiesa italiana tra comunismo e secolarizzazione. Piccola storia degli anni 1945 – 2015”. Sono rimasto colpito, in particolare, da una riflessione emersa nel corso della serata: la Chiesa si concentrò troppo sul fronte del comunismo e non si accorse di aver già incubato il virus più pericoloso, il secolarismo.

Vero. D’altronde, non fu il Papa Emerito Benedetto XVI a pronunciare parole durissime contro la cultura secolaristica del nostro tempo? Se nazismo e comunismo sono stati i “mali ideologici” del secolo scorso, “ora la Chiesa è attaccata dalle ideologie materialiste, quelle secondo cui è assurdo pensare a Dio, ai comandamenti di Dio: è cosa di un tempo passato”. La nuova aggressione si esplicita nel valore del consumo e dell’egoismo.

Che cosa unisce i popoli, i gruppi, le persone? Io penso che questo legame abbia un nome: bisogno di sicurezza. Non intendo le esigenze naturali primarie, come la fame e la sete, che possono anche essere causa di occasionali atteggiamenti egoistici. Dico lo stare in salute, il vivere in una abitazione certa, il poter fare affidamento su un lavoro garantito, il riuscire a costruire una famiglia, l’avere assicurata una condizione di libertà e di pace sociale. Bisogni che compaiono appena dopo quelli primari e motivano a ricercare protezione e contatto, relazione e vicendevole sostegno. Quando la sicurezza così intesa manca o traballa, i vincoli di vicinanza e di solidarietà tra gli individui si rinsaldano.  Basti pensare proprio all’Italia del secondo dopoguerra. Nel reciproco aiutarsi si agitava una fiamma di spiritualità, di autentica umanità. Che poi ciascuno fosse mosso da una sua visione di crescita e di rinascita, è un fatto storicamente acquisito: c’era la visione religiosa di ispirazione cristiano-cattolica, quella atea di ispirazione comunista e la visione laica liberale. La nostra Costituzione è, infatti, figlia di queste tre matrici di pensiero.

Il benessere conquistato nel tempo, però, ha modificato il quadro. I bisogni primari e quelli di sicurezza si sono assicurati ad ampi strati della popolazione. Siamo scivolati nella fase della creazione e del soddisfacimento di falsi bisogni ovvero di bisogni accessori. Siamo piombati nell’era del voluttuario. Che va perseguito in solitaria, privatamente, senza mobilitazioni di massa. Scaturisce da qui la crisi di religioni e ideologie (che altro non sono che religioni aconfessionali).

Il comunismo, dimostratosi già inadatto al raggiungimento del primo traguardo, è diventato ormai un vecchio arnese inservibile al nuovo scopo. La teoria liberale ha stravinto, esaurendo la sua funzione propulsiva: negli ultimi trent’anni il metodo liberista ha imposto un modello economico che non dipende più dalle politiche governative, ma dalle logiche del mercato globale. La libertà economica ha addirittura finito per comprimere le altre libertà individuali. E, per paradosso, ciò è avvenuto col compiacimento generalizzato degli individui. Le persone sono state sedotte dalle merci, accettando il rischio di trasformarsi in merci esse stesse. Che spazio per Dio può ancora esserci? Anche la presa che i valori religiosi operavano sulla vita quotidiana si è allentata in maniera decisiva.

Durante la premiazione con l’Oscar del suo film “La vita è bella”, Roberto Benigni disse: “Ringrazio i miei genitori per il più grande dono: la povertà”. Una frase che mi è rimasta nel cuore, avendo potuto pronunciarla anch’io. Chiarisco subito, a scanso di equivoci: non sono un propugnatore della miseria dei popoli; non mi si arruoli tra grillini e pentastellati come sostenitore della teoria della decrescita felice. Al contrario, difendo come naturale e legittima l’aspirazione degli individui a migliorare le proprie condizioni di vita. La mia è soltanto un’amara constatazione: la ristrettezza unisce e fa germogliare, il benessere allontana e inaridisce. La conquista della prosperità ha in sé l’ineluttabile crisi della componente spirituale, della fede in qualunque dottrina, comportando la meccanica esaltazione del momento materialistico-edonistico. La stessa crisi delle vocazioni ecclesiastiche in Italia e nel mondo occidentale non è forse effetto di questa realtà? E non è conseguenza di ciò il fatto che la Chiesa cattolica abbia dovuto chiamare al soglio pontificio, per conservarsi e rilanciarsi, un vescovo dalla periferia diseredata del mondo?

Una riflessione approfondita sul perché questo Papa abbia scelto di chiamarsi Francesco, nella capitale della cristianità, andrebbe fatta ancor oggi. – Michele Giardino – Consigliere comunale Piacenza – Forza Italia»

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