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Riciclare non basta: i rifiuti nel mondo hanno toccato quota 2,3 miliardi di tonnellate

L’analisi del professor Riccardo Torelli dell’Università Cattolica di Piacenza, pubblicata su Nature Human Behaviour, mette in discussione il mito del riciclo come soluzione unica

Nel 2024 il mondo ha prodotto 2,3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi urbani. Di questi, solo il 61% è stato trattato in impianti controllati. Un’emergenza che ha anche un peso economico enorme: già nel 2020 i costi di gestione ammontavano a 252 miliardi di dollari, che salgono a 361 miliardi se si considerano anche gli impatti sanitari e ambientali. In Europa, intanto, negli ultimi vent’anni i rifiuti generati dalle imprese sono rimasti sostanzialmente stabili: 605,4 milioni di tonnellate nel 2004 contro 602,3 milioni oggi. Numeri che raccontano un sistema globale ancora lontano da un vero percorso di riduzione.

A lanciare l’allarme è il professor Riccardo Torelli, della Facoltà di Economia e Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza e del centro di ricerca RES.m HUB, in un commento pubblicato sulla rivista Nature Human Behaviour. Nonostante gli obiettivi dell’Agenda 2030 e i continui richiami della comunità scientifica sui limiti planetari, la produzione di rifiuti continua a restare su livelli critici.

Secondo Torelli, le imprese puntano spesso sul riciclo perché è una soluzione facile da comunicare e immediatamente spendibile sul piano dell’immagine. Ma il riciclo, da solo, non garantisce la sicurezza dell’approvvigionamento di materie prime, richiede grandi quantità di energia e rischia di indebolire altre azioni fondamentali dell’economia circolare, come la riduzione a monte dei rifiuti, il riuso e la riparazione. Non di rado, inoltre, la narrazione sul riciclo si trasforma in una strategia di “greenwashing”: un modo per apparire sostenibili senza incidere davvero su prodotti e processi. Un fenomeno, sottolinea Torelli, in forte espansione e difficile da controllare.

“Il riciclo è uno strumento importante – spiega – ma non può rappresentare l’unica risposta al problema globale dei rifiuti. In alcuni casi, addirittura, può generare effetti controproducenti”. Un’analisi pubblicata nel 2020 su Nature Sustainability mostra, ad esempio, come nel settore della carta il riciclo possa aumentare le emissioni climalteranti a causa dell’elevato fabbisogno energetico dei processi, spesso ancora alimentati da fonti fossili.

Per questo, la sostenibilità va affrontata con una visione realmente sistemica. “Non avrebbe senso – osserva Torelli – migliorare i dati sul riciclo peggiorando quelli sulle emissioni di CO₂”. Anche perché il riciclo rappresenta solo una delle “R” dell’economia circolare. Accanto ad esso esistono strategie altrettanto decisive come la riduzione dei consumi e il riuso.

Le alternative concrete, spiega il docente, passano soprattutto dalla riprogettazione dei prodotti già in fase di ideazione. Pensare beni durevoli, riparabili, recuperabili e con un ridotto impatto ambientale lungo tutto il ciclo di vita è possibile, ma richiede un profondo cambio di paradigma. “Non è fantascienza – avverte – ma è ancora molto distante dal modo in cui oggi imprese e consumatori concepiscono i prodotti”. La cultura dell’“usa e getta” e la spinta consumistica restano due ostacoli estremamente resistenti.

A rafforzare questo quadro intervengono anche gli studi psicologici e comportamentali, secondo cui individui e organizzazioni, di fronte a problemi complessi e minacciosi, tendono a negarli, a ridimensionarli e a sottrarsi alle proprie responsabilità. Un atteggiamento che favorisce proprio il ricorso a pratiche comunicative ingannevoli come il greenwashing.

Per imprimere una vera svolta, conclude Torelli, non basta l’impegno individuale: serve una governance forte e coordinata, capace di accompagnare cittadini e aziende in una trasformazione profonda dei modelli di produzione e consumo. Una transizione verso una società sempre più “zero waste” potrà funzionare solo se sostenuta da una rete sociale e istituzionale solida, in grado di promuovere, prima di tutto, una maggiore accettazione del concetto di riduzione.

 

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