La Val Luretta come sfondo per il romanzo d’esordio di Laura Fusconi, giovane e promettente scrittrice che con “Volo di paglia” punta dritto a un tema tanto lontano quanto attuale.
1.
Profilo personale: studi fatti, di cosa ti occupi della vita, chi sei.
Liceo classico, laurea in Graphic Design e Art Direction alla NABA di Milano, diploma al biennio della Scuola Holden di Torino. Ora come ora lavoro come grafica nel reparto creativo di un’azienda di Lodi.
2.
Quando è fiorita la tua passione per la scrittura? L’hai sempre avuta?
Mi sono sempre divertita a raccontare storie, da quando alle elementari la maestra diceva: “Tirate fuori il quaderno rosso”, quello con la copertina di plastica che faceva quel rumore bellissimo se la grattavi con le unghie. Con il quaderno rosso le possibilità erano due: o tema, o dettato. Se era dettato sapevi di essere finito, se era tema diventava subito una giornata bellissima.
3.
Quali sono stati i tuoi modelli di riferimento in ambito letterario? O anche per questo libro.
Gli scrittori che mi hanno lasciato parecchio sono tanti. I primi che mi vengono in mente sono Cesare Pavese, Haruki Murakami, Irène Némirovsky, Kent Haruf, Elizabeth Strout, Alice Munro e Marilynne Robinson. In questo romanzo, a posteriori, ritrovo certe atmosfere che ricordano Niccolò Ammaniti e in alcuni passaggi la durezza di Simona Vinci.
4.
Di cosa parla il libro? La storia.
Siamo negli anni Quaranta, sulle prime colline del piacentino, in val Luretta. Tommaso, Camillo e Lia vivono la loro infanzia tra il castello di Boffalora e la chiesa di Verdeto, nel contesto cupo del Ventennio. Lia è la figlia di Gerardo Draghi, il ras fascista che con il suo gruppetto di camicie nere spadroneggia nella zona. La casa della famiglia Draghi, la Valle, è il fulcro geografico e ideale attorno a cui ruota l’intera vicenda, teatro di orrori e violenze. Cinquant’anni dopo questa casa è in rovina e vede i giochi di altri due bambini, Luca e Lidia, a cui spetta il compito di chiudere quanto di irrisolto resta del passato.
5.
Come mai hai scelto di collocarla in un periodo storico così particolare per la storia italiana?
Oltre all’interesse che provo per gli anni del fascismo e in particolare per la forza con cui la gente ha saputo reagire, mi affascinano gli strani meccanismi per cui il presente si lega passato ed è da esso determinato: due bambini che, negli anni Novanta, giocano in una vecchia casa in rovina si ritrovano, inizialmente senza saperlo, a ripetere i giochi e a rivivere i dolori di chi, tra quelle mura, era stato bambino cinquant’anni prima.
6.
Ci sono passaggi di cui sei particolarmente fiera, che ti davano gusto mentre li scrivevi?
Il primo capitolo si apre con una festa di paese negli anni quaranta. È stata una delle ultime parti che ho scritto: ero terrorizzata dall’idea di non riuscire a renderne l’atmosfera. Così mi sono documentata parlando con gli anziani che a quelle feste erano presenti e analizzando documenti e fotografie dell’epoca, tanto che poi, scriverne, è stato particolarmente gratificante.
7.
Ti piacerebbe diventare scrittrice a tempo pieno un giorno?
Sì, come mi sarebbe piaciuto diventare una scienziata o una domatrice di tigri.
8.
I dati Istat di fine dicembre 2017 dicono che in Italia i lettori sono solo il 40% della popolazione, che leggono più le donne degli uomini e che leggono di più i giovanissimi tra gli 11 e i 14 anni. Come mai questa emorragia di lettori secondo te?
Lascerei questa risposta a chi ne sa più di me. Da parte mia direi solo che chi non legge non sa cosa si perde.
9.
Cosa diresti a una persona per invogliarla a leggere?
Non le direi proprio niente, perché i consigli lasciano il tempo che trovano; piuttosto la porterei in una buona libreria e la esorterei a non avere fretta e a girare per gli scaffali: ho la certezza che troverebbe almeno un libro che fa per lei.