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Il rugbista Rolleston da 20 anni a Piacenza. Fatali l’amore e .. gli anolini

Incontriamo Kelly Rolleston sul campo di allenamento del Piacenza Rugby. Maglietta rossa, occhiali da sole, osserva con soddisfazione i ragazzi della prima squadra mentre si allenano sotto la guida di Sandro Pagani e di Davide Toscani. Le vacanze sono ormai archiviate ed il nuovo campionato alle porte.

Kelly, nel suo ruolo di direttore tecnico, è in buona sostanza la cerniera fra la società e le varie squadre del Piacenza, dal mini-rugby fino ai senior. Ormai piacentino d’adozione arriva da lontano dalla terra della vela, dei kiwi, dei maori e naturalmente degli All Blacks la nazionale di rugby a 15 della Nuova Zelanda.

 

Rolleston, quando è arrivato a Piacenza e come?

Sono arrivato che avevo una trentina d’anni, nella stagione 2002/2003. Venivo dal Calvisano. Due anni prima avevo giocato nel Top 14 in Francia e prima ancora a Padova nel Petrarca.

A Piacenza ho giocato per cinque anni, quattro dei quali come capitano. In totale ho giocato cento partite, battendo il relativo record. E’ in assoluto la società con cui ho giocato di più nella mia vita.

Quando ho smesso di giocare sono passato subito ad allenare la seconda squadra. Ho fatto tre anni con Davide Toscani. Poi sono passato ai Lyons dove ho allenato per cinque anni l’under 16, la seconda squadra e la prima squadra per un triennio. Con i Lyons abbiamo vinto il campionato e siamo saliti in eccellenza. L’anno dopo ho deciso di rientrare qui al Piacenza Rugby, con il ruolo di director of rugby.

Oggi la squadra si sta progressivamente strutturando, abbiamo molte più persone a ricoprire vari ruoli. Stiamo facendo dei passi in avanti. Abbiamo costituito un gruppo di allenatori seniores, con gli allenatori della prima e seconda squadra. Da director of rugby sono diventato direttore tecnico, diciamo un ruolo di supervisione di tutte le squadre, dal mini-rugby in su.

Il pallone ovale continua ad essere la sua attività principale?

Si, assolutamente

Come ha iniziato a giocare a rugby, a casa sua in Nuova Zelanda?

In Nuova Zelanda abbiamo la fortuna che nelle scuole si pratica molto sport. Non è come qui, in Italia, che i ragazzi fanno attività sportiva, accompagnati dai genitori, al pomeriggio, finite le lezioni. Da noi lo sport è parte integrante del percorso scolastico.

Io ho iniziato giocando a calcio e l’ho fatto dai cinque ai dieci anni. Ma ho fatto anche un sacco di altri sport, pallanuoto, atletica.  Infine sono passato al rugby che da noi è una cosa abbastanza naturale perché in Nuova Zelanda il rugby è come il calcio qui in Europa.

Ho fatto tutto il percorso giovanile, giocando con la maglia nazionale, under 17, 18, under 21. Ed ancora all’Università, con la selezione. Ho avuto il piacere di indossare la maglia nera degli All Blacks. Ho giocato con la Provincia che a quei tempi, prima del super rugby, era il livello più alto. Ho giocato, in quella categoria, una trentina di volte. Mi è capitato un infortunio e subito dopo ho avuto l’opportunità di venire in Italia. Quasi un caso. Mi ha chiamato un allenatore che conoscevo offrendomi di giocare nel Petrarca a Padova. Sapevo che era una bellissima città. Ho deciso di accettare e … sono ancora qui, dopo ventun anni senza essere mai rientrato, se non in vacanza (e nemmeno più di tanto).

Confessi, nella sua scelta di restare in Italia, ha pesato anche l’amore?

Si, in effetti … Sono sposato con una piacentina, Lucia, da dieci anni. Abbiamo due figli maschi Noah che ha quattro anni e Joshua che ha quattro mesi. 

Per Joshua è prematuro parlarne ma Noah gioca già a rugby?

Si ha già “giochicchiato” e quest’anno inizierà ufficialmente. E’ un po’ come me. Gli piacciono tutti gli sport. Io sono stato fortunato. Lo sport è tutto per me. Mi ha portato dall’altra parte del mondo. E’ la mia vita e adesso anche il mio lavoro. Rispetto tutti gli sport, li seguo e mi piacciono tutti.

Quindi Noah gioca a rugby, ma fa anche nuoto, ha provato il tennis e se volesse fare calcio … nessun problema. Più sport fa e meglio è.  Quello sportivo è un ambiente molto sano. Ti insegna tante cose. E’ un po’ come la vita: vincere, perdere, lavorare insieme agli altri. Ci tengo molto che lui sia appassionato.

Per l’altro vediamo.

Si, effettivamente è un po’ prestino …

Kelly ride, ci pensa un attimo, e se ne esce con una considerazione inattesa.

C’è da dire che mio papà era musicista eppure io non so suonare niente. Purtroppo è mancato che avevo due anni. Magari Joshua ha ereditato quei geni li, artistici.

Qual è la differenza maggiore fra il vivere in Nuova Zelanda e in Italia. Lei se ne è andato abbastanza giovane …

Si avevo ventiquattro anni. Ormai ho trascorso quasi metà della mia vita qui, in Europa.

L’Italia, come paesaggio, assomiglia molto alla mia patria. Ci sono le montagne, il mare. Però la cosa che mi viene subito in mente è che là ci sono 4 milioni di abitanti, qui 60 milioni e la superficie è quasi la stessa (Nuova Zelanda 268.021 km2. – Italia 301.021 km2 ndr).  

Questo porta con sé differenze enormi in termini di spazio, di servizi.  Noi viviamo tutti in villette con più spazio. Qui ci sono città con palazzi enormi e appartamenti piccolissimi. Ovviamente ci sono anche la cultura, la storia. L’Italia è uno dei paesi   più belli e antichi del mondo. Sono rimasto anche per questo. La Nuova Zelanda ha una storia recente. Le strutture sono recenti.

Ovviamente anche il modo di mangiare. In Italia si mangia molto bene, sempre. In Nuova Zelanda abbiamo prodotti freschi, buoni però manca una cultura culinaria vera. Prendiamo un po’ da tutti i paesi.

A proposito di cibo, il suo piatto italiano preferito?

Naturalmente gli anolini.

Torniamo nel suo luogo d’origine.

Si è un’isola e come dice la parola … è isolata … nel Pacifico. La cosa bella del vivere qui invece è che puoi facilmente viaggiare. Anche se non ho tanto tempo, resta la possibilità di andare in Spagna, Francia, in poche ore. E’ una cosa che mi piace.

Ci sembra entusiasta del  nostro paese. Ma confessi, qualche difetto riuscirà ben a trovarlo in Piacenza e nell’Italia?

Kelly ci pensa un po’ come se davvero faticasse a trovare un difetto al nostro paese, che pure ne ha tanti. Si vede che il mugugno … non è nel suo DNA. Alla fine qualcosa trova seppure, ai nostri occhi, totalmente veniale.

Mah. Non so se sia un difetto italiano. Certamente c’è un modo diverso di affrontare la vita. In Nuova Zelanda, essendo pochi, c’è più l’idea di un villaggio. C’è forse più rispetto per le persone anche perché se tratti male qualcuno … probabilmente lo incontri anche il giorno dopo! Altri difetti non me ne vengono in mente. Si vede che son diventato un po’ italiano anche io… dopo tanti anni. 

Ecco, pensandoci, mi viene in mente il modo di “fare la fila”. Quando arriva qualcuno e fa finta di non vedere la gente in attesa … questo un po’ fastidio, dopo vent’anni, me lo dà ancora. Io non passo comunque davanti a nessuno e non mi piace che qualcuno lo faccia.  

Dove abita?

Abito un fuori, a Ponte dell’Olio, mi piace avere un po’ più spazio rispetto alla città.

A proposito di città, è vero che i piacentini sono chiusi?

No, non lo penso. Ovunque sia stato a Padova, a Brescia … tutti dicono la stessa cosa, di essere chiusi. Sarà anche per il fatto che ho sempre girato nel mondo del rugby, dove trovi subito una famiglia, la squadra. Personalmente non ho mai avuto problemi.

Certo ho anche amici che vengono dal sud e che hanno un altro modo di fare rispetto ai piacentini o ai bresciani; sono subito più aperti. Ma anche io sono, tendenzialmente, una persona riservata.

La fortuna è stata per me arrivare si dall’altro capo del mondo, ma in una società con giocatori, allenatori che mi hanno subito accolto e fatto diventare parte di un gruppo. Resta il fatto che tutti dicono di essere chiusi … sarà … !

Quale è il suo giudizio sul valore dello sport, e del rugby in particolare, per i giovani. La ritiene una  disciplina formativa, inclusiva, utile per crescere e tener lontani i ragazzi da brutte tentazioni?  

Il nostro è uno sport di squadra. Ci sono vari reparti e se non c’è collaborazione non riesci a vincere il pallone. Ne è un esempio la mischia, con otto persone: se ognuno spinge per conto suo … non vai da nessuna parte. Se invece collabori ottieni risultati.

Questo vale un po’ per tutti gli sport. Da un lato non penso che il rugby sia così speciale. Dall’altro noi, come società, come allenatori, insegniamo ai nostri ragazzi il rispetto per i compagni, per gli avversari, per l’arbitro, per tutti insomma. Dobbiamo essere noi stessi il primo esempio. Il risultato è sotto gli occhi di chiunque. Se vai a vedere una partita del Sei Nazioni vedi un ragazzo italiano seduto di fianco ad un gallese sugli spalti. Questo nel mondo del calcio è impossibile.

E’ una cosa che i genitori apprezzano molto. Una volta si diceva che il rugby era uno sport per tutti, adatto a chi era un po’ più alto, più grosso, più veloce, più piccolo. Sta leggermente cambiando, come sport, perché l’aspetto fisico è sempre più importante però … c’è sempre spazio per tutti e in particolare le porte del piacenza Rugby sono aperte per chiunque voglia provare. Noi siamo fortunati. Abbiamo ragazzi che magari giocano poco ma si impegnano sempre e stanno bene nel gruppo. Questa è la cosa che mi rende più contento, vedere gente che viene volentieri, si diverte e porta anche la famiglia.

Carlandrea Triscornia

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