Tenere accesi i riflettori sui protagonisti della montagna: gli abitanti. Perché, come in ogni cosa, la differenza la fanno le persone. Questa la motivazione che ha spinto il giornalista Filippo Mulazzi a raccogliere ben 70 interviste ai cosiddetti “resistenti” delle alte valli piacentine, gente del posto che decide di rimanere nonostante la mancanza di lavoro e di servizi, o famiglie che vi si trasferiscono provenienti da altre zone d’Italia: quelli che si sono lasciati alle spalle le comodità della città e della pianura preferendo tenere vive piccole comunità disperse del nostro Appennino, una delle zone meno popolate d’Italia dove si lotta per il presente e per il futuro. Storie raccolte tra il 2019 e l’inizio di quest’anno e pubblicate sul quotidiano online “Il Piacenza” (dove Mulazzi è redattore) e ora raccolte nel volume “L’Appennino resistente e i suoi protagonisti” (Officine Gutenberg), presentato dall’autore in dialogo con Emanuele Galba, direttore responsabile di BANCAflash, al PalabancaEventi (Sala Panini) per iniziativa della Banca di Piacenza (presenti il presidente Giuseppe Nenna, il direttore generale Angelo Antoniazzi e il vicedirettore generale Pietro Boselli).
«Volevo mettere in circolo un po’ di energia positiva – ha spiegato il cronista originario di Ferriere – con questo libro che non racconta favole», nel senso che parla di problemi e disagi conosciuti e irrisolti «ma che trasmette l’entusiasmo di chi è rimasto e non vuole arrendersi». L’autore conosce molto bene la nostra montagna («sicuramente poco cool ma per certi versi più autentica e vera») e ha addebitato la sua arretratezza – evidente rispetto ad alcune zone appenniniche dell’Emilia Romagna più forti economicamente – alla mancanza «di un patto tra economia e politica» che avrebbe potuto portare infrastrutture e sviluppo, perché in quelle zone il problema principale è il lavoro: quello impiegatizio è impalpabile, mentre c’è richiesta di boscaioli, muratori, giardinieri, mestieri che quasi più nessuno vuole fare. «C’è assoluta carenza di imprese – ha aggiunto il dott. Mulazzi – e mi fa un po’ rabbia pensare che una delle aziende più importanti del mondo, la Luxottica, abbia sede in un paese grande come Farini, sulle montagne bellunesi». Realtà così fanno naturalmente la differenza, dando modo ai residenti di non abbandonare i loro territori d’origine.
«Con questa pubblicazione avevo un obiettivo facile, già raggiunto – ha argomentato il relatore -: alla gente che legge queste storie vien voglia di conoscere questi “resistenti”. E un obiettivo più ambizioso: che qualcuno, sempre dopo la lettura, decida di ripensare il proprio modo di vivere scegliendo la montagna. So che è un’utopia, ma non escludo possa essere possibile».
Assecondando le domande del direttore di BANCAflash, l’autore ha individuato tra i vantaggi dell’ambiente appenninico l’essere all’interno di una rete sociale stretta («una riserva di relazioni umane») e sottolineato la necessità di recuperare una visione complessiva del territorio: «Spesso parlando con i politici mi accorgo che quelli di città non conoscono i problemi della provincia; viceversa, nella vallate i problemi della città sono meno sentiti».
Ma quali sono le storie che hanno colpito di più? «Per esempio – ha spiegato il giornalista piacentino – quelle che coinvolgono gli ormai pochi allevatori rimasti sulle nostre montagne: si alzano alle 4 del mattino per dare da mangiare agli animali, perché spesso fanno altro come occupazione principale, magari in pianura. Che cosa li spinge? L’amore per la propria terra e il desiderio di dare continuità ad una attività iniziata dai nonni e portata avanti dai genitori». Anche a qualcun altro la sveglia suona all’incirca alle 4: è quella dei fratelli Marco e Paolo Baldini, boscaioli di Pittolo che alle 6 sono già nei boschi della nostra montagna, bisognosi di cure per scongiurare il dissesto idrogeologico: «Un lavoro che non vuol fare più nessuno». Ancora, incuriosisce la piccola realtà di Groppallo, 300 anime con grande senso di appartenenza («si considerano altra cosa rispetto al capoluogo Farini»), un luogo dove resistono, per tradizioni famigliari tramandate da generazioni, attività commerciali e ricettive, nonostante tutto. Altro esempio, i coniugi Valentino Alberoni (di San Giorgio) e Clara Mezzadri (di San Nicolò). Sono i proprietari del Castello di Gambaro, il cui restauro si è meritato il Premio Gazzola 2024, manifestazione da sempre sostenuta dalla Banca locale. Tra i citati, non poteva certo mancare Marco Labirio, uno dei pochi imprenditori che ha scelto di sviluppare la propria attività nel luogo d’origine, Bobbio, dando lavoro con la sua Gamma (produttrice di componenti elettrici) a 200 persone, in maggior parte donne: «Un ammirevole esempio di “resistente”», ha osservato il dott. Mulazzi, che al termine della serata si è volentieri prestato al rito del firma-copia.
In apertura d’incontro, Emanuele Galba ha compiuto un salto indietro nel tempo (febbraio 1998) per portare i presenti a riflettere sul fatto che i problemi dello spopolamento della montagna non sono certo nati oggi, anzi. Ha quindi dato lettura di un articolo (“Vi racconto Farini con Gioia”) scritto quando era redattore di “Libertà” e successivamente pubblicato anche nel volume di Paolo Labati e Dina Bergamini “Orme su monti”. Un’intervista al cav. Lino Gioia, allora brillante novantenne (mancherà cinque anni dopo) memoria storica di Farini, decano dei componenti dei Comitati di credito della Banca e papà di Giuseppe, ex dipendente dello stesso Istituto di credito che a Farini inaugurò la propria filiale il 29 giugno del 1960. «Qui gli abitanti – osservava il cav. Lino – si sciolgono come neve al sole». Un fenomeno che non si è mai fermato. Non certo per colpa del surriscaldamento del pianeta ma – forse – di una politica un po’ distratta.